Questo post potrebbe essere frainteso come un qualcosa di personale se non fosse che, nella realtà, riguarda tutti noi e, soprattutto, tutta la povera gente che, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, è stata costretta a vivere in realtà disumane, spersonalizzanti e criminogene, per il semplice diletto di pessimi professionisti, ideologicamente compromessi, i quali, in nome dell’ideologia personale, hanno pensato bene di fare sperimentazione delle proprie “fantasie” su delle ignare cavie umane.
E non potrei dire diversamente pensando alle parole di Mario Fiorentino, autore del Corviale di Roma:
«Ci sono due modi di fare Architettura … o forse ce n’è solo uno … c’è quello semplice e pacato dell’utilizzazione degli schemi super testati che l’edilizia pubblica in Italia – e non considero solo quella romana – ha più o meno accettato. E poi c’è quello sperimentale, che è il metodo a cui l’esperienza di Corviale appartiene. Io ricorderò sempre come Ridolfi, che è stato il mio vero maestro, sempre mi diceva: “quando progetti per un cliente (e l’edilizia pubblica è un cliente come un qualsiasi altro privato), senza rivelarglielo, tu devi sempre sperimentare” perché, in effetti, queste sono esattamente le opportunità nelle quali gli esperimenti possono essere fatti!»
La ragione di questa premessa polemica è presto detta.
In occasione del Convegno RoweRome2017, mi era stato chiesto di parlare del modello socio-politico-economico dell’ICP all’inizio del XX secolo e di come l’avessi utilizzato per il mio progetto di Rigenerazione Urbana del quartiere Z.E.N. di Palermo[1]… pluripremiato all’estero ed ignorato in Italia!
La presentazione ha riscosso un notevole apprezzamento da parte dei presenti provenienti da altri Paesi. Costoro, superato lo shock della proiezione dei video dell’intervista di Gregotti nel corso del programma “Le Iene” – cui avevo aggiunto dei sottotitoli in inglese – hanno potuto rendersi conto dell’assurda sudditanza nei confronti di Gregotti dei professionisti e docenti italiani.
Una delle organizzatrici del convegno, nell’intervento di apertura, aveva elencato i “guru” dell’urbanistica italiana, ovvero quei grandi maestri cui dobbiamo tutto! Ebbene, se posso condividere il rispetto per molti dei nomi citati, mi viene davvero difficile includere in quell’elenco di “grandi maestri” personaggi come Vittorio Gregotti, Giancarlo De Carlo, Carlo Aymonino ed altri progettisti avrebbero meritato di esser condannati a vivere nelle immonde realtà che hanno realizzato (ovviamente non per se stessi) nel corso della loro vita!
Se la cosa si fosse limitata a quella introduzione, probabilmente non ci sarebbe stato nulla da aggiungere dopo che il pubblico aveva potuto ascoltare, direttamente dalla bocca di Vittorio Gregotti, quella che è la sua reale concezione dell’urbanistica e delle strutture sociali. Tuttavia, nel corso del dibattito finale, in qualità di “padrona di casa” che deve esprimere l’ultima parola, l’organizzatrice – anche in qualità di organizzatrice del vergognoso concorso per la rigenerazione urbana del Corviale di Roma – pur non avendo assistito a tutta la presentazione sul progetto dello Z.E.N. (ergo non avendo ascoltato né come il progetto di rigenerazione sia nato, né come sia stato articolato, né tantomeno aver ascoltato l’intervista di Gregotti) ci ha tenuto a criticare l’idea della demolizione graduale e sostituzione, dando una giustificazione che ha lasciato attoniti gli astanti: “Non si può immaginare di poter demolire certe cose!” Alla mia richiesta di spiegarci il perché, la risposta è stata: “ehm … beh, perché non si può!” AMEN!
E dire che, al termine della mia conferenza, l’oratore successivo Ken McCown dell’Università dell’Arkansas, aveva esordito dicendo di essere contentissimo di aver assistito alla presentazione ed aver potuto vedere per la prima volta il progetto per lo ZEN perché, proprio il giorno prima, in una conferenza tenutasi a Houston, aveva sentito citare il mio progetto, preso come modello per un intervento di ‘rigenerazione’ che verrà realizzato nella città texana!
C’è da chiedersi quale possa essere la ragione per cui, solo qui in Italia, professori e professionisti, mantengano questa sudditanza culturale nei confronti dei presunti maestri del Novecento … Quale può essere la ragione di questo rifiuto di tagliare il cordone ombelicale?
Come ho detto nel corso del mio intervento, potremmo limitarci a non condannare certi “pionieri”, fingendo che non sapessero, né potessero immaginare, le conseguenze sull’umanità e sull’ambiente delle opere che andavano realizzando, tuttavia oggi, a distanza di tanti anni, dovremmo riconoscere di avere sufficienti prove del loro fallimento per evitare di continuare a considerarli come grandi modelli.
Personalmente preferirei far riflettere sul fatto che, solo di recente e dopo oltre 5000 anni di storia dell’architettura, l’uomo ha iniziato ad interrogarsi su come possa realizzarsi una città più sostenibile! La ragione di questo interrogativo risiede proprio nel modo di costruire gli edifici e le città sviluppato negli ultimi 80 anni …
Appare paradossale, ma ciò che nelle città e nell’architettura non funziona è esattamente ciò che, a partire dagli anni ’30 del secolo trascorso, ci venne presentato ed imposto come “funzionale”[2]!
Come non prendere le distanze – è il caso di dirlo – dalle imposizioni di Le Corbusier il quale, descrivendo la “Ville Radiesuse” asseriva: «le città saranno parte della campagna; io vivrò a 30 miglia dal mio ufficio, in una direzione, sotto alberi di pino; la mia segretaria vivrà anch’essa a 30 miglia dall’ufficio, ma in direzione opposta e sotto altri alberi di pino. Noi avremo la nostra automobile. Dobbiamo usarla fino a stancarla, consumando strada, superfici e ingranaggi, consumando olio e benzina. Tutto ciò che serve per una grande mole di lavoro … sufficiente per tutti.»
Come non fare altrettanto con un personaggio come Gregotti il quale, mentre all’epoca in cui progettava lo ZEN sosteneva, con i suoi colleghi, che il loro ultimo fine fosse quello di «materializzare l’idea che la città storica, espressione delle classi sociali che avevano dominato e oppresso la società umana, doveva essere abbandonata ai suoi fondatori, mentre alle classi sociali popolari in ascensione sarebbero stati destinati i nuovi quartieri costruiti in periferia che, aggregandosi, avrebbero finito col generare la Nuova Gerusalemme: la città della società senza classi, libera, giusta e fraterna»[3], nel corso dell’intervista televisiva[4] alla domanda «perché, se sostiene che sia tanto riuscito e bello non ci va lei a vivere allo ZEN?» rispose: «che c’entra, io faccio l’architetto, non faccio il proletario!»
Purtroppo, a causa dell’insegnamento dogmatico ed ideologico operato nelle nostre università, risulta difficilissimo riporre nel dimenticatoio certe “divinità” sbagliate. Del resto, difficilmente un figlio riuscirà a rinnegare il proprio padre, riconoscendone gli errori. Sta dunque alle nuove generazioni documentarsi autonomamente per poter separare il grano dalla pula … ma la cosa non è facile.
Per questo, anni fa, nella premessa al mio libro “Architettura e Urbanistica – Istruzioni per l’Uso[5]” scrissi:
“Un consiglio a tutti i giovani che decidano di iscriversi alle facoltà di Architettura e di Ingegneria: prima di varcare la soglia degli atenei sarebbe utile una opportuna profilassi anti lobotomia modernista da eseguirsi nell’interesse dell’intera comunità, da tempo vittima dell’operato dei progettisti.
Il miglior modo resta lo studio approfondito della Sociologia Urbana – disciplina nata per studiare e curare gli effetti collaterali dell’operato degli architetti e degli urbanisti Otto-Novecenteschi. Tuttavia, una prima buona e veloce “vaccinazione” può operarsi leggendo l’illuminante testo di Tom Wolfe “Maledetti Architetti”[6], libro che, da solo, serve a farci vergognare per quello che la gente pensa di noi “grazie” a ciò che il Modernismo ha prodotto!
Dopo anni di tentativi pacati di discussione all’interno della Facoltà di Architettura, anni durante i quali ho svolto il ruolo del Mahatma Gandhi, senza riuscire ad ottenere alcuna possibilità di apertura al dialogo, ho deciso di dare alla stampa questo saggio.
Un vecchio adagio popolare dice: non c’è peggior sordo di chi non vuole ascoltare. Allora, davanti all’arroganza dei fondamentalisti del movimento modernista (e di tutte le più recenti assurde e contorte derivazioni), penso che non sia più possibile pensare di mantenere un tono sommesso, penso che serva alzare la voce, almeno quanto loro, nella speranza che finalmente qualcuno ascolti.
Il superego, e la conseguente mancanza totale di rispetto per chiunque altro, dimostrata dalla quasi totalità degli architetti del XX secolo, la loro pretesa di essere infallibili, ma soprattutto il non essersi resi conto di aver accettato di sottomettersi passivamente alle più abominevoli idee speculative mascherate dal concetto distorto di “modernità” (Modernismo) provenienti da pseudo-culture a noi estranee, hanno generato l’appiattimento del mondo, hanno creato il disagio sociale delle periferie, hanno prodotto il congestionamento dei centri storici, insomma hanno condotto l’Architettura e le nostre città in un vicolo cieco. (ecc…)”
Tornando quindi ai cattivi maestri ed alla ricaduta delle loro idee sull’intera collettività, voglio ricordare che Le Corbusier, in una delle sue letteracce a Giedion che si rifiutava di pubblicare la Carta di Atene per assenza di consensi all’interno del CIAM, scrisse:
«Ascolti Giedion: sono dieci anni che sto di fronte alla realtà. Io so qual è il problema, dove sono le inquietudini, dove sono i freni, dove sono le debolezze, dove sono le buone intenzioni. Io so dove bisogna mirare […] a chi bisogna rivolgersi. Il nostro IV Congresso è un evento. Semplicemente! […] L’ultimo giorno sono state prese delle decisioni accettate da tutti. Esse sono oggettive. Ecco il fatto sensazionale: accordo su delle idee oggettive[7]. Sono idee quelle che devono essere poste di fronte all’opinione pubblica. È per questo che il nostro Congresso vive. Se no crepa! Queste idee oggettive saranno una verità del 1933 per tutti, in tutti i paesi. … Non dobbiamo sottrarci. Abbiamo dei doveri: degli architetti ci attendono, dei sindaci, dei ministri: in una parola persone che hanno delle responsabilità. Non si fa un Congresso per affermare delle cose vuote, ma per costruire […] È giunto il momento. Giedion, il mondo brucia. C’è bisogno di certezze. Noi siamo i tecnici dell’architettura moderna […] io chiedo che le risoluzioni siano pubblicate. La forma mi importa poco[8]».
Ebbene, parafrasando il folle svizzero, posso dire che è vero, il mondo brucia! … Ma lo fa per colpa sua e dei suoi seguaci fondamentalisti.
Con la pubblicazione della Carta di Atene, fatta in autonomia da Le Corbusier nel ’41, ben 8 anni dopo il Congresso, si gettarono le basi per la dismissione delle città a dimensione umana, a beneficio di quella a dimensione di automobile … e l’Italia fu uno dei primi Paesi a legiferare (Legge Urbanistica 1150/42) ispirandosi a quelle idee folli.
Come logicamente previsto da Le Corbusier, gli architetti, i sindaci e i ministri in attesa presero quelle follie come oro colato, ed oggi ne paghiamo tutti le conseguenze.
A distanza di tanti anni, però, dopo aver registrato il disastro socio-ambientale di certe politiche, è giunto il momento di trovare il coraggio per riconoscerne il fallimento totale.
Ragion per cui chi svolge il delicatissimo ruolo di insegnante, piuttosto che ostinarsi a difendere l’indifendibile, dovrebbe condannare chi abbia reso invivibili le nostre città e promosso il brutto in luogo del bello! … Se non ne sono capaci, che si facciano da parte e la smettano di fare il lavaggio del cervello delle nuove leve poiché queste, come loro, all’indomani della laurea e del tutto in buona fede, rischieranno di superare (in follia) i propri maestri!
[1] Per maggiori informazioni: http://www.livablecities.org/articles/proposal-urban-regeneration-suburb-zen-palermo-italy
[2]https://www.academia.edu/10339178/Dietro_il_Modernismo_-_vicende_poco_note_che_cambiarono_il_modo_di_fare_urbanistica_e_architettura
[3] Andrea Sciascia, Tra le Modernità dell’Architettura – la questione del Quartiere ZEN 2 di Palermo, L’Epos Edizioni, Palermo 2003.
[4] “Le Iene”, puntata del 20 febbraio 2007.
[5] Architettura e Urbanistica, Istruzioni per l’Uso – Architecture and Town Planning, Operation Instructions, (con prefazione di Léon Krier), Gangemi Edizioni, Roma 2006
[6] Bompiani Edizioni, Milano 1988-2001 – Titolo originale From Bauhaus to our house
[7] Da quanto ho raccontato alla pagine precedente sappiamo bene che non è vero!
[8] in Antologia di testi e documenti del IV Congresso internazionale di architettura moderna, a cura di P. G. Gerosa, pp. 433-434.
Sfogliando Difendere l’indifendibile ho avuto l’impressione di essere nuovamente esposto alla terapia d’urto con cui, piu di cinquant’anni fa, il compianto Ludwig von Mises mi converti a una posizione liberista coerente.
È stato il tema della mia tesi di laurea nella facoltà di Architettura di Roma a Valle Giulia non molto gradito dalla metà della commissione d’esame che litigava con l’altra metà che invece lodava l’idea di superare il quartiere dormitorio per renderlo adeguato alle funzioni urbane e sociali della collettività.