«da un’Architettura così concepita non può nascere nessuna abitudine plastica e lineare, perché i caratteri fondamentali dell’Architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. “Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città” questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del “Futurismo”, […] pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista[1]».
Vicende storiche italiane all’origine dell’egemonia Modernista
Le parole di Sant’Elia, giovane ribelle all’epoca delle avanguardie artistiche internazionali – epoca in cui l’Italia cercava di riappropriarsi del ruolo di centro artistico e culturale del mondo – potrebbero giustificarsi in quel contesto, ma è inaccettabile che siano state intese come una “Bibbia” per tutta l’architettura successiva.
Ciò che non ebbe modo di essere sviluppato da Sant’Elia, a causa della morte prematura, venne portato avanti dalle teorie di LeCorbusier nell’interesse dell’industria automobilistica[2]. Il potere economico delle lobbies dell’industria automobilistica e dell’edilizia, generò un bombardamento mediatico mirante a screditare l’architettura e l’urbanistica tradizionale, a favore di una nuova architettura votata al consumismo.
All’estero, riviste come “Moderne Bauformen”, “L’Architecture d’Aujourd’hui”, “AC – Documentos de Actividad Contemporánea, Publicación del G.A.T.E.P.A.C.”, opportunamente sponsorizzate dall’industria automobilistica ed edilizia, promuovevano la nuova visione della città. Nell’Italia del 1931, mentre nella Roma artigiana chiudeva i battenti la “scomoda” rivista “Architettura e Arti Decorative”, nelle industriali Milano e Torino “La Casa Bella”, “Quadrante”, “Domus“, “La Nuova Architettura” impartivano i propri dogmi, enfatizzando la necessità di azzeramento della Storia teorizzata da Gropius, rivendicando le ragioni di una nuova Architettura, definita “virile e dunque priva di ogni aggiunta decorativa”, “antitradizionale”, “espressione della Rivoluzione Fascista”. Questi dogmi, sotto l’egida del Regime, avrebbero modificato drasticamente l’insegnamento dell’Architettura in Italia!
In occasione dell’Esposizione Italiana di Architettura Razionale, Pier Maria Bardi, intenzionato a mettere al bando l’architettura “vigliacca e passatista”, dedicò un’intera stanza alla “Tavola degli Orrori”, un collage caricaturale di foto e disegni delle architetture tradizionali realizzate in Italia dai primi del Novecento fino a quella data.
Questa mostra ebbe una ricaduta enorme sulla mente del Duce e dell’intellighenzia dell’epoca.
Nel 1929 Armando Brasini aveva ricevuto l’incarico di costruire a Roma un edificio che rimpiazzasse il demolito Teatro Nazionale di F. Azzurri. Mussolini, che aveva definito Brasini “l’unico architetto degno di poter mettere le mani sul centro di Roma”, si compiacque del progetto, confermando la validità della scelta dell’architetto.
All’indomani della mostra di Bardi però, nel discorso inaugurale (28 marzo 1932), l’opinione del Duce era totalmente cambiata: «l’edificio è un autentico infortunio capitato proprio alle Assicurazioni agli Infortuni!»
Nel 1932 Bardi – che dopo aver ripetuto per tre volte la terza elementare, era stato costretto per legge ad abbandonare gli studi[3] – fondò la rivista Quadrante.
Il decennio 1927 – ’36 fu testimone a Como di un’aspra battaglia tra “tradizionalisti” e “modernisti”, generata dall’edificazione del Novocumum di Giuseppe Terragni. Edificio inaccettabile per i comaschi dell’epoca che ironicamente lo definirono”il Transatlantico“.
In sostituzione del progetto classicista approvato dalla Commissione Edilizia, era stato realizzato un edificio che ribaltava i canoni del palazzo d’abitazione.
La cosa fu denunciata subito dopo la rimozione dei ponteggi, quando agli occhi dei cittadini si presentò un edificio totalmente dissimile da quello aspettato.
In città scoppiò un putiferio che portò alla nomina di una Commissione per stabilire se demolire l’edificio!
La polemica venne raccolta dalle più importanti riviste di architettura che difesero “l’innovativa architettura finalmente attenta ai principi razionali”. Era l’inizio del “dominio culturale”, manovrato dalle riviste specializzate, che avrebbe visto progressivamente aumentare il suo potere, a discapito de senso del bene e del bello comune!
La storia si ripeté con la “Casa del Fascio”, e questa volta la reazione dei comaschi fu più forte: Nel 1928, la Federazione Politica comasca, nonostante l’incidente del Novocomum, aveva affidato il progetto al Terragni che, come ricorda A. Artioli «seguì lo stesso metodo usato per il Novocomum dove, per accelerare i tempi burocratici e soprattutto mettere di fronte al fatto compiuto le autorità comunali, aveva “truccato” il progetto presentato ufficialmente»: dal campo militare dove stava svolgendo il servizio di leva, scrisse al fratello Attilio dicendogli: «presenta un “progetto in stile”, poi quando tiriamo su i ponteggi facciamo quello che vogliamo![4]».
Lo stesso Mussolini rimase turbato dall’edificio. Poi però, Terragni e Marinetti (il teorico del Futurismo), coniarono la giustificazione plausibile: l’edificio trasformava in architettura la frase del Duce «il Fascismo è una casa di vetro!». fu così che il Duce fece sua l’idea dell’edificio, sposando quell’architettura.
Forte di questo successo politico Carlo Belli, sul numero 35 della rivista Quadrante del 1936, nel testo “dopo la polemica” – che celebrava la vittoria del Modernismo dopo la costruzione della Casa del Fascio – diceva:
«Non so quanti, in Italia, potranno capire oggi la nostra gioia per il compimento della Casa del Fascio di Como. Quando, tra qualche anno, un’adesione universale conforterà quest’opera di Terragni, allora sì, molti si arrenderanno, per riconoscere onestamente che avevamo ragione. […] ma, ora, possiamo rispondere che vogliamo la Casa del Fascio di Como, intanto, come modello-base per tutti gli edifici d’Italia (compresi i ministeri). […] L’idea di un “Nuovo Vignola” dell’architettura italiana, […] è una proposta veramente saggia da attuarsi subito per l’onore e la salvezza del nostro prestigio in fatto di architettura. In questo manuale la Casa del Fascio di Como sarà la tavola logaritmica delle costruzioni del genere, il vocabolario in cui sono espresse nella loro forma migliore, tutte le soluzioni più esatte dei più complicati problemi. Un prontuario di bellezza, un paradigma di saggezza: un’opera completa sotto tutti i punti di vista».
Non c’è quindi da meravigliarsi se il Regime, per la prima volta, arrivò ad imporre la “nuova” Architettura: un regime totalitario che racconta di dare delle case moderne, simbolo di libertà e di progresso, non può che essere apprezzato!
Sebbene possa sembrare impossibile che questo piccolo evento comasco possa aver influenzato il futuro del Paese, il racconto che segue può aiutare a darci un’idea del peso che questa vicenda ebbe sulle sorti dell’architettura e dell’urbanistica italiana.
Persecuzioni
Recentemente, un interessante articolo di Alberto Longatti[5] ha riaperto la polemica, facendo luce sulla triste vicenda di Massimo Bontempelli, co-direttore di “Quadrante”, licenziato perché non gradiva la Casa del Fascio.
Nell’articolo è riportata un’inedita lettera inviatagli nel 1979 da P. M. Bardi. La lettera racconta la verità sul rapporto Terragni – Bontempelli, incluso, scrive il Longatti, «che il fascicolo, interamente dedicato alla Casa del Fascio comasca, venne in pratica impaginato dallo stesso Terragni, che portò a Roma anche i cliché delle illustrazioni, nell’intento di fornire una documentazione esaustiva e divulgare tutti i presupposti teorici per la sua opera».
Nella lettera di Bardi si legge:
«Dato che lei si interessa dei rapporti fra Terragni e Bontempelli, a proposito della Casa del Fascio di Como le dirò che Peppino [Terragni] non volle partecipare della redazione di “Quadrante”, malgrado fosse mio intimo amico fin dal tempo della mia difesa del “Transatlantico” [Novocomum], sua prima opera. […] Ciò non tolse che, ultimata la Casa del Fascio, io non decidessi di dedicarle un intero numero, considerando la costruzione il primo fatto positivo della polemica che avevo intrapreso su “L’Ambrosiano”. Bontempelli, che poco si era interessato fino allora di questa polemica, si manifestò contrario al numero speciale su Terragni; poiché io insistevo mi annunciò che ad ogni modo avrebbe scritto anche lui sull’argomento […] e voleva dire la sua. Devo affermare […] che quando ricevetti il testo, constatai perplesso il giudizio negativo riservato a Terragni […]. Mi decisi a non inserire nel numero il parere del mio condirettore, dopo aver scartato l’idea di farlo seguire da una contronota. Fu una decisione dura […].
La mia iniziativa provocò purtroppo la rottura della nostra collaborazione […].
Ricordo con tristezza la sua telefonata: “… hai fatto cosa non degna” […] D’altra parte io non potevo infirmare il lavoro di Terragni […]. Quel numero di «Quadrante» era considerato una rivincita nella stessa Como, dove non tutti erano d’accordo sulla sua arte […].
Terragni sapeva benissimo che Bontempelli avrebbe silurato in una critica la Casa del Fascio […]».
Bontempelli pagò dunque col posto di lavoro il disappunto nei confronti di un edificio in cui né l’intera cittadinanza comasca, né inizialmente il Partito, si riconoscevano. Il volere dell’architetto aveva preso il sopravvento sulle aspettative dei fruitori delle sue opere!
Oggi quindi, non c’è da meravigliasi se le archistars e i loro “parolieri” ritengono che la gente non possa comprendere le loro opere, e che debba essere “educata”.
Imposizioni
La lettura di un testo di legge emanato due anni dopo i fatti del 1936 ci dimostra che, la delirante richiesta di Belli, venne tramutata in realtà.
Nel 1938, affinché non si osasse mai più costruire in modo tradizionale, il Ministero della Pubblica Istruzione promulgava le “Istruzioni per il restauro dei Monumenti” il cui punto 8 così recitava:
«per ovvie ragioni di dignità storica e per la necessaria chiarezza della coscienza artistica attuale, è assolutamente proibita, anche in zone non aventi interesse monumentale o paesistico, la costruzione di edifici in “stili” antichi, rappresentando essi una doppia falsificazione, nei riguardi dell’antica e della recente storia dell’arte».
La strenua resistenza degli architetti “tradizionali” agli attacchi provenienti dalle riviste moderniste ormai non aveva più campo d’azione: essi erano stati banditi per legge!
L’architettura era morta in nome del Modernismo di Stato ma, nonostante l’evidenza dei fatti, vige ancora l’equazione architettura tradizionale = fascismo!
Questi aneddoti cambiarono radicalmente il modo di insegnare, costruire e concepire l’architettura e l’Urbanistica in Italia. La revisione di questi eventi potrebbe aiutarci a riportare l’architettura nei canoni della “sostenibilità”.
[1] Antonio Sant’Elia – punto 8 del Manifesto dell’Architettura Futurista dell’11.07.1914
[2] Prima il Plan Voisin (Voisin era un costruttore d’auto) e poi la Ville Radieuse secondo cui «le città saranno parte della campagna; io vivrò a 30 miglia dal mio ufficio, in una direzione, sotto alberi di pino; la mia segretaria vivrà anch’essa a 30 miglia dall’ufficio, ma in direzione opposta e sotto altri alberi di pino. Noi avremo la nostra automobile. Dobbiamo usarla fino a stancarla, consumando strada, superfici e ingranaggi, consumando olio e benzina. Tutto ciò che serve per una grande mole di lavoro … sufficiente per tutti.»
[3] R. Mariani, Razionalismo e architettura moderna, Milano 1989
[4] Alberto Artioli, “La Casa del Fascio di Como”, BetaGamma Editrice, Roma 1990, pag. 20; cfr. anche Ada F. Marcianò, “Giuseppe Terragni. Opera completa 1925-1943”, Officina Edizioni, Roma 1987, pag. 306
[5] “Così Bontempelli stroncò la Casa del Fascio di Terragni” – sul quotidiano on-line “La Provincia di Como” del 24 settembre 2010.
Un pensiero su “Origini dell’egemonia “Modernista” (di Regime)”