La recente apertura della Domus Romana in Piazza Sordello a Mantova[1] ha suscitato un putiferio nella città lombarda Capitale della Cultura 2016. In effetti, per la Capitale della Cultura, concludere il suo “mandato” con questo intervento non è stato il miglior modo per congedarsi … il tutto è avvenuto sotto l’egida della Soprintendenza, del Comune e del Politecnico, mentre l’indignazione popolare e non solo cresceva, nel totale disinteresse di chi avrebbe dovuto ascoltare.
Contemporaneamente, la giunta comunale di Rimini ha dato il via al taglio delle Mura Malatestiane lungo il Marecchia, al fine di installare una discutibile passerella volante ed un assurdo “ponte galleggiante” che, a detta dei promotori, risulterebbe una “riqualificazione” del Ponte di Tiberio!
Il tutto, strenuamente difeso dalla Soprintendenza locale e dai politici di maggioranza, mentre la stragrande maggioranza dei riminesi contesta, implorando di bloccare i lavori, prima che sia troppo tardi.
Mesi fa, invece, in quel della Spezia, veniva inaugurata l’ignobile opera di “riqualificazione” di Piazza Verdi, opera griffata dal presunto artista di fama internazionale Daniel Buren. Una vera e propria “piazza della vergogna”, presentata come uno “spazio ludico” che ha portato all’abbattimento di meravigliosi pini domestici ultrasettantenni, per consentire l’installazione di orribili telai colorati, zone allagate, ecc. che hanno reso la piazza un tempo polo vitale della città, in un luogo praticamente inutilizzabile e deserto! A nulla sono valsi gli appelli dei comitati di cittadini, le lettere di indignazione provenienti da tutto il mondo, le proteste di Italia Nostra, le interviste al sottoscritto e a Vittorio Sgarbi, il ricorso al TAR e qualsivoglia tentativo di scongiurare lo scempio. L’ottusità e l’arroganza hanno vinto su tutto. L’unico “successo” per gli spezzini è stato quello di vedere il sindaco-dittatore perdere le elezioni.
Ma la serie di scempi, avallati dalle Soprintendenze in giro per l’Italia, è pressoché infinita: si va dalle installazioni temporanee come quelle, sempre di Buren, lo scorso anno sul Palatino, all’allagamento del Torrione di Santa Maria nel Castello di Barletta ad opera di NIO architecten e tanto altro ancora, fino alla realizzazione del mega palco e teatro, sempre sul Palatino, per il kolossal Divo Nero Opera Rock. Tutte installazioni “temporanee”, realizzate col beneplacito della Soprintendenza che, per poter essere realizzate, lasciano segni “permanenti” che, spesso, divengono danni!
Verrebbe da chiedersi: ma perché tanto accanimento contro il nostro patrimonio storico architettonico? E allora cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
Verso la fine del sec. XVIII, l’esigenza di tutelare i monumenti dalle distruzioni e alterazioni, aveva trovato i suoi primi interpreti in personalità come William Morris e John Ruskin le cui idee, lo vedremo, ebbero un enorme influsso sulla Teoria del Restauro successiva.
Ruskin sosteneva che il restauro fosse «la più totale distruzione che un edificio potesse subire: una distruzione alla fine della quale non resta neppure un resto autentico da raccogliere, una distruzione accompagnata dalla falsa descrizione della cosa che abbiamo distrutto […] poiché il restauro è distruzione di ogni elemento di testimonianza storica autentica è necessario proteggere per non restaurare».
In Francia invece, intorno alla metà del XIX secolo, Eugène Viollet-Le-Duc, preoccupato dalla parzialità delle conoscenze degli architetti prodotti dall’École des Beaux-Arts, resi incapaci di restaurare il patrimonio storico-architettonico medievale, scriveva:
«Per quanto riguarda la folla degli studenti, dopo aver progettato per dieci anni monumenti impossibili e indescrivibili, essi non hanno davanti a sé che la prospettiva di un posto in provincia, oppure il settore privato. Ora, bisogna riconoscere che essi non sono stati assolutamente preparati a svolgere queste funzioni. Poche idee pratiche, molti pregiudizi, nessuna conoscenza dei materiali del nostro paese e dei modi di impiegarli, il profondo disprezzo dell’ignoranza per le arti proscritte dalla scuola e difficili da studiare e conoscere; nessuna idea della direzione e dell’amministrazione dei cantieri, nessun metodo, e la mania di fare dei monumenti, quando si tratta semplicemente di edificare costruzioni solide, adeguate, adatte alle esigenze […] dal fatto che fate costruire tutte le case di una strada o di una piazza con lo stampino, dal fatto che esigete che il vostro architetto riempia una facciata di finestroni simili, malgrado i servizi molto diversi contenuti nell’edificio, concludete di dar prova di rispetto per l’arte. Errore, voi la torturate; vi trasformate nel suo boia; soffocate la sua più nobile qualità, quella che consiste nell’esprimere liberamente le sue necessità, i suoi gusti, la sua individualità. Non c’è arte senza libertà, perché l’arte è un’espressione del pensiero; e cos’è dunque l’espressione del pensiero, se siete costretti a ripetere quanto dice il vostro vicino, o a dire bianco quando vedete nero?[2]»
Questo suo cruccio per una situazione accademico-professionale non dissimile (sebbene in chiave classica), da quella che viviamo oggi col “fondamentalismo modernista”, lo portò a sviluppare e mettere in pratica l’idea di “Restauro Stilistico”: «restaurare un edificio non è conservarlo, ripararlo o rifarlo, è ripristinarlo in uno stato di completezza che può non essere mai esistito in un dato tempo […] quando si debbono aggiungere parti nuove, anche se mai esistite, occorre mettersi al posto dell’architetto primitivo e supporre cosa farebbe lui».
La posizione di Viollet venne comunque ignorata e, tutt’oggi, derisa dai luminari della materia.
In Italia invece, a partire da fine Ottocento Camillo Boito, affascinato dalle parole di Ruskin tuonava: «[…] I muri di mattoni, sui quali il tempo e la salsedine hanno messo gli splendori ammirabili delle loro tavolozze e le piante parassite si arrampicano sugli intonaci sgretolati e gettano le loro radici nei buchi profondi, rallegrando, inghirlandando le grate rovine, il sudiciume stupendo […] Il monumento dunque è un libro, che io intendo leggere senza riduzioni, aggiunte o rimaneggiamenti. Voglio sentirmi ben sicuro che tutto ciò che vi stia scritto uscì dalla penna e dallo stile dell’autore […] e come caccerei in galera il falsificatore di vecchie medaglie, così vi manderei a marcire il falsificatore di un vecchio edificio o di una parte di un vecchio edificio […][3]».
Così nel 1883, sotto l’egida di Camillo Boito, si tenne a Venezia un importante congresso che vide riuniti intorno al capezzale dei nostri Beni Culturali architetti ed ingegneri, accorsi per dibattere sui temi del restauro e trovare un punto di mediazione: dopo anni di sperimentazioni si giungeva ad enunciare alcuni principi che si ponevano non solo l’esigenza di garantire la conservazione dei monumenti, ma anche una loro corretta lettura. … il problema della presunta “falsificazione della storia” iniziava a germogliare.
Ne scaturì una complessa e graduale elaborazione di orientamenti, principi, leggi e prescrizioni, via via codificati ed incorporati in una serie di documenti diretti a guidare gli interventi: le cosiddette “Carte del Restauro”. Dalla “Carta di Atene” del 1931, alla “Carta di Cracovia” del 2000, al “Memorandum di Vienna” del 2005[4].
Ebbene, ferma restando la assoluta necessità di tutelare, preservare e restaurare i nostri Beni Architettonici, alla luce delle conseguenze nefaste per il nostro patrimonio derivanti dall’applicazione ottusa, se non addirittura errata, di certe indicazioni, probabilmente è giunto il momento di rileggere un po’ il tutto e, nel caso, di rimettere in discussione qualcosa, a partire da certe posizioni ideologiche, che mai dovrebbero essere prese in seria considerazione!
Per esempio, come è possibile che il restauro, materia che dovrebbe avvalersi dell’esperienza costruttiva di chi viva sul cantiere, debba sottostare alle indicazioni/imposizioni di storici dell’arte che non hanno alcuna conoscenza del comportamento fisico, chimico e strutturale degli edifici?
Oppure, quale può essere la qualità della formazione data agli studenti da parte di persone che non hanno mai fatto un restauro nella loro vita? E perché mai nelle università italiane non sembra possibile mettere in discussione la figura dello storico dell’arte Cesare Brandi il quale, in nome dell’ideologia del suo tempo, scrisse parole di fuoco, se non addirittura offensive, contro la ricostruzione del Ponte di Santa Trinita a Firenze, del Campanile di San Marco a Venezia e della Stoà di Attalo di Atene?
In fondo qui in Italia, piuttosto che accontentare i capricci ideologici di C. Brandi[5] secondo il quale: «Il rifacimento tanto più sarà consentito quanto più si allontanerà dall’aggiunta e mirerà a costituire un’unità nuova sulla vecchia», consentendo le violenze di cui sopra, basterebbe semplicemente rispettare la definizione di restauro riportata nei vocabolari … cosa che accade in tutti gli altri Paesi civili:
«Restaurare: rimettere nelle condizioni originarie un manufatto o un’opera d’arte, mediante opportuni lavori di riparazione e reintegro[6]»
Del resto, pur nel rispetto delle teorie di Brandi, il discorso sulle ‘falsificazioni’, avrebbe senso solo nel caso delle opere d’arte mobili e di antiquariato, commerciabili ed esportabili, e non di certo per un edificio o un centro urbano.
In ogni modo, se proprio si volesse mantenere la devozione alle varie Carte, dovremmo imparare a leggerle attentamente, anche nelle loro stesse contraddizioni, e rispettarne tutti i punti, piuttosto che solo quelli in linea con l’ideologia di moda. Se mai questo fosse possibile, ne verrebbe fuori un comportamento, da parte di progettisti, soprintendenti, politici e responsabili d’ufficio, molto differente da quello messo in atto negli ultimi 60 anni!
Prima di riassumere brevemente alcuni passaggi di quelle Carte molto interessanti – ergo ignorati da chi risulti in malafede – risulta necessario ricordare alcune cose che riguardano il modo di progettare il nuovo, che grande influenza hanno avuto anche sulla teoria del restauro. Infatti, va ricordato che l’ossessione degli architetti e teorici dell’architettura per il “contemporaneo” e lo zeitgeist, ha giocato e gioca un ruolo cruciale dell’opera di lavaggio del cervello di chi, credendosi in buona fede, ha prodotto e produce danni incalcolabili al nostro patrimonio.
Nel 1914, Antonio Sant’Elia, nel suo Manifesto dell’Architettura Futurista sentenziò: «da un’Architettura così concepita non può nascere nessuna abitudine plastica e lineare, perché i caratteri fondamentali dell’Architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. “Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città” questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del “Futurismo”, […] pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista[7]».
Queste parole ebbero un’influenza enorme, in Italia e all’estero, creando le premesse per lo sviluppo della Teoria dell’Architettura e del Restauro che seguirono … sia che si trattasse di Paesi democratici che sottoposti a regimi dittatoriali. … Questa riflessione, apparentemente fuori luogo, ha invece una notevole importanza, visto che i peggiori danni ideologici risultano essere stati prodotti, in periodo post bellico, dagli “esperti” dei governi “di sinistra”, che manipolarono del tutto la realtà dei fatti.
Certi “esperti” infatti, facendosi forza sullo stato emotivo degli italiani sopravvissuti al ventennio fascista – nell’interesse della speculazione – condannarono a morte l’artigianato edilizio in nome dell’anonima edilizia industriale.
Quegli “esperti”, infatti, non ci hanno mai raccontato che nell’Italia del 1931, mentre nella Roma artigiana chiudeva i battenti la scomoda rivista “Architettura e Arti Decorative”, nelle industriali Milano e Torino “La Casa Bella”, “Quadrante”, “Domus“, “La Nuova Architettura” impartivano i propri dogmi, enfatizzando la necessità di azzeramento della Storia teorizzata da Gropius, rivendicando le ragioni di una nuova Architettura, definita “virile e dunque priva di ogni aggiunta decorativa”, “antitradizionale”, “espressione della Rivoluzione Fascista”. Questi dogmi, sotto l’egida del Regime, avrebbero modificato drasticamente l’insegnamento dell’Architettura in Italia!
Fu anche grazie a quelle idee di “virilità architettonica” se, nel 1938, affinché non si osasse mai più costruire in modo tradizionale, il Ministero della Educazione Nazionale promulgò le “Istruzioni per il restauro dei Monumenti”, il cui punto 8 sentenziava:
«Per ovvie ragioni di dignità storica e per la necessaria chiarezza della coscienza artistica attuale, è assolutamente proibita, anche in zone non aventi interesse monumentale o paesistico, la costruzione di edifici in “stili” antichi, rappresentando essi una doppia falsificazione, nei riguardi dell’antica e della recente storia dell’arte».
Nonostante l’evidenza dei fatti però, i “grandi teorici di sinistra” ci hanno fatto credere, ed ancora lo fanno, che un’architettura tradizionale contemporanea, dotata di dettagli, risulterebbe “fascista” e/o “borghese”.
Nella speranza che questo preambolo possa essere riuscito a rimuovere ogni possibile pregiudizio nella mente dei lettori, a beneficio di chi gestisca i nostri beni culturali, riporto di seguito una serie passaggi delle varie Carte del Restauro che andrebbero seriamente presi in considerazione per un corretto operato.
La Carta di Atene del 1931
- Tra le varie raccomandazioni sottolineava l’importanza di “uniformare le legislazioni così da non far prevalere l’interesse privato su quello pubblico”;
- Nonostante l’istigazione (non condannabile perché non se ne potevano conoscere gli effetti collaterali a medio-lungo termine) “all’impiego giudizioso di tutte le risorse della tecnica moderna, e più specialmente del cemento armato”, la Carta sottolineava la necessità che “questi mezzi di rinforzo debbano essere dissimulati per non alterare l’aspetto e il carattere dell’edificio da restaurare”.
- Raccomandava “di rispettare, nelle costruzioni degli edifici, il carattere e la fisionomia della città, specialmente in prossimità dei monumenti antichi, per i quali l’ambiente deve essere oggetto di cure particolari […]”.
- Raccomandava una corretta istruzione, affinché “gli educatori volgano ogni cura ad abituare l’infanzia e la giovinezza ad astenersi da ogni atto che possa degradare i monumenti e le inducano ad intendere il significato e ad interessarsi, più in generale, alla protezione delle testimonianze d’ogni civiltà”.
La Carta di Venezia (1964)
- La Carta ricordava che “La nozione di monumento storico comprende tanto la creazione architettonica isolata, quanto l’ambiente urbano o paesistico che costituisca la testimonianza di una civiltà particolare, di un’evoluzione significativa o di un avvenimento storico […]”.
- Che “la conservazione dei monumenti è sempre favorita dalla loro utilizzazione in funzioni utili alla società: una tale destinazione è augurabile, ma non deve alterare la distribuzione e l’aspetto dell’edificio”.
- Che “la conservazione di un monumento implica quella della sua condizione ambientale. Quando sussista un ambiente tradizionale, questo sarà conservato; verrà inoltre messa al bando qualsiasi nuova costruzione, distruzione ed utilizzazione che possa alterare i rapporti di volumi e colori”.
- Che “le aggiunte non possono essere tollerate se non rispettano tutte le parti interessanti dell’edificio, il suo ambiente tradizionale, l’equilibrio del suo complesso ed i rapporti con l’ambiente circostante”.
La Carta Italiana del Restauro (1972)
Nella prefazione a questo documento, si legge un passaggio fondamentale per chi insegni e pratichi la nostra professione, oltre che per gli amministratori delle nostre città e dei nostri Beni Culturali. Il testo dice:
- “Né minori guasti dovevano prospettarsi per le richieste di una malintesa modernità e di una grossolana urbanistica, che nell’accrescimento delle città e col movente del traffico portava proprio a non rispettare quel concetto di ambiente, che, oltrepassando il criterio ristretto del monumento singolo, aveva rappresentato una conquista notevole della Carta del Restauro e delle successive istruzioni. […]”.
Il testo poi specifica che
- “[…] in relazione ai fini delle operazioni di salvaguardia e restauro, è proibita indistintamente […] ogni alterazione delle condizioni accessorie o ambientali nelle quali è arrivata sino al nostro tempo l’opera d’arte, il complesso monumentale o ambientale, il complesso d’arredamento, il giardino, il parco, ecc.;
- “Ai fini dell’individuazione dei Centri Storici, vanno presi in considerazione non solo i vecchi “centri” urbani tradizionalmente intesi […] Il carattere storico va riferito all’interesse che detti insediamenti presentano quali testimonianze di civiltà del passato e quali documenti di cultura urbana, anche indipendentemente dall’intrinseco pregio artistico o formale o dal loro particolare aspetto ambientale, che ne possono arricchire o esaltare ulteriormente il valore, in quanto non solo l’architettura, ma anche la struttura urbanistica possiede, di per se stessa, significato e valore. […] Il restauro non va, pertanto, limitato ad operazioni intese a conservare solo i caratteri formali di singole architetture o di singoli ambienti, ma esteso alla sostanziale conservazione delle caratteristiche d’insieme dell’intero organismo urbanistico e di tutti gli elementi che concorrono a definire dette caratteristiche. […]
- Gli elementi edilizi che ne fanno parte vanno conservati non solo nei loro aspetti formali, che ne qualificano l’espressione architettonica o ambientale, ma altresì nei loro caratteri tipologici in quanto espressione di funzioni che hanno caratterizzato nel tempo l’uso degli elementi stessi. […] Su tutto il complesso definito come centro storico si dovrà operare con criteri omogenei”.
La Dichiarazione di Amsterdam (1975)
- La Dichiarazione chiarisce che “il patrimonio comprende non solo edifici isolati di eccezionale valore ed il loro ambiente, ma pure gli insiemi, quartieri di città e villaggi, che offrano un interesse storico o culturale”.
- Nel rispetto della cittadinanza, la Dichiarazione suggerisce inoltre che “i poteri locali devono perfezionare le loro tecniche di consultazione per conoscere il parere dei gruppi interessati ai piani di conservazione e tenerne conto fin dall’elaborazione dei loro progetti. Nel quadro della politica d’informazione del pubblico, essi devono prendere le decisioni alla luce del giorno, usando un linguaggio chiaro ed accessibile a tutti, affinché la popolazione possa conoscere, discutere ed apprezzare i motivi delle decisioni. Dovrebbero essere previsti luoghi d’incontro per l’intesa pubblica. In questo senso dovrebbero diventare una pratica corrente il ricorso alle riunioni pubbliche, alle esposizioni, ai sondaggi d’opinione, ai mass-media ed a tutti gli altri mezzi idonei”.
- “Il patrimonio architettonico europeo non è formato soltanto dai nostri monumenti più importanti, ma anche dagli insiemi degli edifici che costituiscono le nostre città e i nostri villaggi tradizionali nel loro ambiente naturale o costruito. Per molto tempo sono stati tutelati e restaurati soltanto i monumenti più importanti, senza tener conto del loro contesto. Essi però possono perdere gran parte del loro valore se questo loro contesto viene alterato. Inoltre gruppi di edifici, anche in mancanza di episodi architettonici eccezionali, possono presentare qualità ambientali che contribuiscono a dar loro un valore artistico diversificato e articolato. Questi gruppi di edifici debbono essere conservati in quanto tali. Il patrimonio architettonico costituisce una testimonianza della storia e della sua importanza nella vita contemporanea”.
- “Questo patrimonio è in pericolo. È minacciato dall’ignoranza, dal tempo, da ogni forma di degradazione, dall’abbandono. Un certo tipo di urbanistica ne favorisce la distruzione quando le autorità attribuiscono eccessiva attenzione agli interessi economici e alle esigenze della circolazione. La tecnologia contemporanea male applicata degrada le strutture antiche”.
La Carta Internazionale per la Salvaguardia delle Città Storiche (Washington, 1987)
- Nel preambolo alla Carta si legge: “La presente Carta concerne più precisamente le città, grandi o piccole, ed i centri o quartieri storici, con il loro ambiente naturale o costruito, che esprimono, oltre alla loro qualità di documento storico, i valori peculiari di civiltà urbane tradizionali. Ora, questi sono minacciati dal degrado, dalla destrutturazione o meglio, distruzione, sotto l’effetto di un modo di urbanizzazione nato nell’era industriale e che concerne oggi, universalmente, tutte le società.
- Nel testo si specifica che “i valori da preservare sono il carattere storico della città e l’insieme degli elementi materiali e spirituali che ne esprime l’immagine; in particolare:
- la forma urbana definita dalla trama viaria e dalla suddivisione delle aree urbane;
- le relazioni tra i diversi spazi urbani: spazi costruiti, spazi liberi, spazi verdi;
- la forma e l’aspetto degli edifici (interno e esterno), così come sono definiti dalla loro struttura, volume, stile, scala, materiale, colore e decorazione;
- le relazioni della città con il suo ambiente naturale o creato dall’uomo;
- le vocazioni diverse della città acquisite nel corso della sua storia.
Ogni attentato a tali valori comprometterebbe l’autenticità della città storica”.
- Viene inoltre ribadita l’importanza del coinvolgimento della popolazione: “La partecipazione ed il coinvolgimento degli abitanti di tutta la città sono indispensabili al successo della salvaguardia. Essi devono, dunque, essere ricercati in ogni circostanza e favoriti dalla necessaria presa di coscienza di tutte le generazioni. Non bisogna mai dimenticare che la salvaguardia delle città e dei quartieri storici concerne in primo luogo i loro abitanti”.
- Inoltre, contro ogni ideologia, viene chiarito che “Gli interventi su un quartiere o una città storica devono essere condotti con prudenza, metodo e rigore, evitando ogni dogmatismo, ma tenendo in considerazione i problemi specifici a ciascun caso particolare”.
- Infine la Carta ribadisce che “Il piano di salvaguardia […] deve ricevere l’adesione degli abitanti”.
La Carta di Cracovia 2000
- La Carta, pur ribadendo il “divieto della ricostruzione di intere parti “in stile”, chiarisce anche che “Le ricostruzioni di parti limitate aventi un’importanza architettonica, possono essere accettate a condizione che siano basate su una precisa ed indiscutibile documentazione” e che “La ricostruzione di un intero edificio, distrutto per cause belliche o naturali, è ammissibile solo in presenza di eccezionali motivazioni di ordine sociale o culturale, attinenti l’identità di una intera collettività”.
- Infine, la Carta chiarisce che “Le città ed i villaggi storici, nel loro contesto territoriale, rappresentano una parte essenziale del nostro patrimonio universale, e devono essere visti nell’insieme di strutture, spazi e attività umane, normalmente in un processo di continua evoluzione e cambiamento […]. Gli edifici nelle aree storiche possono anche non avere un elevato valore architettonico in sé stessi, ma devono essere salvaguardati per la loro unità organica, per le loro connotazioni dimensionali, costruttive, spaziali, decorative e cromatiche che li caratterizzano come parti connettive, insostituibili nell’unità organica costituita dalla città”.
Concludendo, da quanto si evince da questi documenti, possiamo dire che la normativa esistente, se letta in maniera distaccata dall’ideologia del momento, consentirebbe di restaurare, ricostruire, adeguare il nostro patrimonio, senza necessariamente violentarlo e/o comprometterlo.
Sta dunque ai nostri responsabili dei Beni Culturali fare in modo che, mai più, un professionista autocelebrativo possa permettersi di violentare a proprio piacimento un monumento, un centro storico o un qualsiasi contesto.
Si tratta quindi semplicemente di ricordarsi che, quando si interviene, lo si deve fare nel rispetto del monumento, del contesto e della cittadinanza, piuttosto che dell’ego arrogante del presuntuoso di turno.
Chi non è in grado di comprendere questo senso del rispetto si faccia gentilmente da parte!
Parafrasando le parole relative alla Terra pronunciate nel 1852[8] da un Capo Indiano, dovremmo ricordarci che “Le Città in cui viviamo non le abbiamo ereditate dai nostri padri, le abbiamo prese in prestito dai nostri figli e, come tali, dobbiamo restituirgliele!”
[1] “Mantova scende in piazza contro la grande bruttezza della Domus”. Fabio Poletti – Pubblicato su “La Stampa” il 07/06/2017
[2] Viollet-Le-Duc, Conversazioni sull’Architettura – Edizioni Jaca Book S.p.A. – Milano 1990
[3] Camillo Boito, Gite di un Artista, 1884
[4] Carta di Atene (1931); Carta Italiana del Restauro (1932); Istruzioni per il Restauro dei Monumenti (1938); Carta di Venezia (1964); Carta Italiana del Restauro (1972); Carta di Amsterdam (1975); Dichiarazione di Amsterdam (1975); Carta di Firenze dei Giardini Storici (1981); Convenzione di Granada (1985); Dichiarazione di Washington (1987); Carta della Conservazione e Restauro degli Oggetti d’Arte e di Cultura; Arte e di Cultura (1987); Carta di Firenze sui Beni Culturali Europei (1991); Carta di Cracovia (2000); Memorandum di Vienna (2005).
[5] Teoria del Restauro, 1963; Carta del Restauro di Venezia del 1964
Per la sua biografia https://it.wikipedia.org/wiki/Cesare_Brandi
[6] Vocabolario Italiano Devoto – Oli, 1987
[7] Antonio Sant’Elia – punto 8 del Manifesto dell’Architettura Futurista dell’11.07.1914
[8] “La Terra su cui viviamo non l’abbiamo ereditata dai nostri padri, l’abbiamo presa in prestito dai nostri figli”. Questa è ormai una delle più utilizzate citazioni estratte dal discorso che nel 1852, Capo Seattle pronunciò relativamente alla volontà di comprare le terre del suo popolo, gli indiani d’America. Ma nonostante venga sempre più spesso menzionata, con la stessa facilità e frequenza la si dimentica.
Dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, della nota equazione: Antifascismo = Fascismo. I sindaci democratici se ne fregano dei cittadini né più né meno dei podestà del vituperato Ventennio….. Saluti.
esatto Claudio!
Un caro saluto
Ettore
Se l’attuale senatore romano Walter Tocci,,già a suo tempo co – protagonista dell’ardita scelta “veltroniana” di far passare la linea C della Metro di Roma per il Colosseo, piazza Venezia ed il Centro Storico, sventrandone le viscere, con la complicità pervicace degli uffici tecnici del Comune mantenuti in piedi col medesimo “IGNORANTE” personale anche dall’attuale giunta “grillina” (altro che spoils systems, massa di incapaci ed incompetenti, basta che andiate in bicicletta!) è tornato sui suoi passi, che dire?
Cosa infatti ha riconosciuto TOCCI QUALCHE GIORNO FA?
HA CLAMOROSAMENTE RICONOSCIUTO:
“CON LA STAZIONE AI FORI IMPERIALI SI STA PER COMPIERE IL PIU’ GRANDE SCEMPIO DELLA STORIA MODERNA”!
Scempio al quale vorrebbe aver contribuito il napoletanissimo compagno prof. ing. Ennio Cascetta, di Del Rio fino a ieri primo fiduciario e collaboratore, che dopo avere imposto E FINANZIATO L’OPERA da SAN GIOVANNI A COLOSSEO e TUTTO IL MERIDIONE HA LASCIATO IL MIT PER DIVENIRE AMMINISTRATORE UNICO DI METRO NAPOLI E DI COLORO AI QUALI HA APPENA DATO SOLDI FINO AL 2024!??!??! W L’ITALIA W LA CAMORRIA! W LA CAMORRA VERA E PROPRIA ANCHE PROVVEDITORIA!! PAOLO PROF: ING: LEONI ( de na vorta!) ciao Ettore; lo sai che dato che le stazioni sono tanto belle nessuno ha mai chiesto quanto è costata la metro a Napoli? Non solo, ma forse neppure si sa!
Devo dire che tutti i “lungimiranti” che permettono e realizzano questi scempi, andrebbero mandati a svolgere lavori socialmente utili e non a rovinare le città.
concordo in toto!
Spesso le riqualificazioni sono delle squalificazioni. Adesso Piazza Buren è diventato luogo di caos.