Considerato l’abuso terminologico che se ne fa, penso che non si possano più utilizzare termini come “sostenibilità” quando di discuta di sviluppo urbano corretto.
In molti credono che un edificio, semplicemente perché dotato dei sistemi più avanzati in materia di “energia pulita”, possa definirsi sostenibile … anche qualora risulti situato in un contesto suburbano insostenibile, ed anche se quei sistemi energetici risultino prodotti a 3000 chilometri di distanza dal luogo in cui verranno impiegati … perfino se la valutazione del ciclo di vita dei materiali non risponda ai requisiti ambientali internazionali.
La Comunità Europea sovvenziona l’installazione di pannelli solari e impianti fotovoltaici sugli edifici (e nei terreni un tempo coltivati) … ma nessun Paese possiede un preciso programma di smaltimento dei pannelli quando essi dovranno essere sostituiti (15 – 20 anni) … in pratica stiamo semplicemente lasciando una pessima eredità ai nostri figli, senza peraltro produrre abbastanza energia “pulita” in grado di giustificarne i costi!
La lobby dei produttori di materiali industriali è quella che decide questo genere di politiche “ecologiche” sovvenzionate … ma chiediamoci: sono queste politiche realmente meritevoli di essere considerate come sostenibili?
Considerato che la domanda è retorica – dato che è chiaro a tutti che si tratta semplicemente di una grande menzogna creata ad-hoc dai burattinai che muovono i legislatori – la risposta è: NO!
Questi burattinai non hanno alcun interesse per il mondo dei loro nipoti, né per quello dei loro figli, per cui dovremmo imparare ad essere un po’ più diffidenti quando qualcuno verrà a proporci determinati interventi sovvenzionati dalla Comunità Europea!
Recentemente, abbiamo visto premiare, come “progetti sostenibili”, degli assurdi grattacieli (decisamente la tipologia edilizia più energivora e insostenibile). Si faccia caso a come, la totalità delle riviste di architettura, – tutte sponsorizzate dall’industria edilizia – risulti stracolma di progetti strampalati presentati come sostenibili, ECO, LEED, bio, ecc. … l’importante è fare il lavaggio del cervello alla gente con parole positive, non di certo proporre dei reali luoghi sostenibili dove vivere!
Una delle peggiori ed illogiche attitudini di molti architetti, specie delle “archistars”, è quella di credere che, se lo schermo dei loro computer mostra che i loro progetti possono avere dei “prati verticali” o dei “boschi verticali” sui loro edifici (come il super celebrato progetto dei grattacieli di Milano i cui alberi sono già secchi), quelle piante non necessitino di radici!
… Come può la natura essere così malvagia, da impedire che certi progetti possano funzionare? Se l’erba e gli alberi muoiono, non è colpa degli architetti, è Madre Natura ad essere ignorante ed in errore … o semplicemente obsoleta: non risponde allo zeitgeist!
Non sarà mica giunto il tempo di rivedere la nostra terminologia? Non sarà tempo di elencare, seriamente, i parametri da rispettare per poter considerare un progetto come realmente sostenibile?
Un tempo, prima di divenire uno dei tanti aspetti del consumismo, l’architettura veniva costruita “per sempre”: gli edifici venivano infatti costruiti impiegando materiali durevoli! Questo succedeva quando i Paesi erano sovrani, e non dipendenti dalla globalizzazione … in quei tempi, i politici erano sufficientemente saggi da comportarsi – come ancora oggi recita il Codice di Procedura Civile Italiano[1] – come il “buon Padre di famiglia”, vale a dire gestendo i denaro pubblico in modo da ridurre le spese superflue.
Fino all’avvento del consumismo/modernismo, gli architetti non erano mai stati così sprovveduti dal promuovere la morte dei propri edifici prima di se stessi.
Per esempio, nel 1911 Quadrio Pirani, architetto dell’Istituto per le Case Popolari di Roma, si preoccupava della dignità e del rispetto della gente, nonché dell’importanza di ridurre i costi di manutenzione degli edifici:
«Non solo la casa ”bella all’esterno e pulita all’interno” contribuisce all’elevazione delle classi che la abitano, ma che un giusto impiego di materiali durevoli, quali i laterizi e le maioliche, porta ad una diminuzione nel tempo delle spese di manutenzione degli edifici, soprattutto quando si tratti di edifici a più piani riuniti in un isolato o in un quartiere urbano[2]».
… Oggi sappiamo che non mentiva, perché i suoi edifici, costruiti come alloggi sociali, non hanno mai richiesto costi di manutenzione in oltre 100 anni ed ora, il suo quartiere San Saba rappresenta una delle realtà più vivibili e piacevoli della città, dove gli ex appartamenti popolari risultano essere tra i più richiesti (e costosi) del mercato immobiliare, nonostante risultino esser stati costruiti con costi bassissimi e tempi brevissimi[3].
Diversamente, nel 1914, l’approccio di Antonio Sant’Elia’s nel suo Manifesto dell’Architettura Futurista risultò alquanto diverso:
«da un’Architettura così concepita non può nascere nessuna abitudine plastica e lineare, perché i caratteri fondamentali dell’Architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. “Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città”, questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del “Futurismo”, che già si afferma con le “Parole in libertà”, il “Dinamismo plastico”, la “Musica senza quadratura” e l’”Arte dei rumori”, e pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista[4]».
Pochi anni dopo, grazie al suo sponsor produttore di automobili, Le Corbusier si spinse più in là con il Plan Voisin prima, e con la visionaria Ville Radieuse poi, sostenendo, (o imponendo dittatorialmente):
«Le città saranno parte della campagna; io vivrò a 30 miglia dal mio ufficio, in una direzione, sotto alberi di pino; la mia segretaria vivrà anch’essa a 30 miglia dall’ufficio, ma in direzione opposta e sotto altri alberi di pino. Noi avremo la nostra automobile. Dobbiamo usarla fino a stancarla, consumando strada, superfici e ingranaggi, consumando olio e benzina. Tutto ciò che serve per una grande mole di lavoro … sufficiente per tutti[5]».
Tutte queste idee strampalate, basate sull’abuso terminologico e presentate come estremamente valide (in nome del consumismo), ci hanno portato al presente punto di non ritorno.
L’intero IV CIAM del 1933 si basava sull’idea di abbandonare, in quanto “errata”, la città tradizionale (condannata come disfunzionale) e promuovere la “città funzionale” … oggi però, dopo 80 anni di dittatura ideologica di quella visione “funzionale”, possiamo – o dovremmo – affermare che ci siamo sbagliati, poiché tutto ciò che oggi consideriamo come disfunzionale in termini di urbanistica, è esattamente ciò che ci venne proposto come funzionale!
È un peccato che l’S.O.S., lanciato da Fernand Léger durante la crociera sul Patris dove si svolgeva il IV CIAM, venne ignorato da quella élite di pensatori dell’architettura guidata da Le Corbusier:
«Penso che la vostra epoca eroica sia conclusa […] Lo sforzo di pulizia è terminato. Fermatevi perché state superando il limite […] Una élite ha seguito la vostra epoca eroica. È normale. Avete costruito delle case per gente che era all’avanguardia […] Voi volete invece che le vostre idee si estendano … che la parola “urbanistica” domini il problema estetico”. […] “L’urbanistica è sociale. Siete entrati in un campo del tutto nuovo, un campo nel quale le vostre soluzioni pure e radicali dovranno combattere […] Abbandonate questa minoranza elegante e accondiscendente […] Il piccolo uomo medio, l’“urbano”, per chiamarlo col suo nome, è preso da vertigini […] Voi avete creato un fatto architettonico assolutamente nuovo. Ma da un punto di vista urbano-sociale avete esagerato per eccesso di velocità. Se volete fare urbanistica credo dobbiate dimenticare di essere degli artisti. Diventate dei “sociali” […] tra la vostra concezione estetica, accettata da una minoranza, e la vostra visione urbana, che si trova ovunque in difficoltà per l’incomprensione delle “masse”, c’è una rottura […] avreste dovuto guardare all’indietro: avreste visto di non avere seguito […] C’è bisogno che uomini come voi osservino più attentamente uomini che stanno dietro e a fianco di loro e che si attendono qualcosa, […]. Rimettetevi i vostri piani nelle tasche, scendete nella strada, ascoltate il loro respiro, prendete contatto, confondetevi con la materia prima, camminate nel loro stesso fango e nella stessa polvere[6]».
Solo lo stupido non impara mai dai propri errori … è tempo di raccogliere quell’S.O.S.!
L’architettura e l’urbanistica non possono essere approcciate con il fondamentalismo religioso di una setta oscura, occorre abbandonare l’orientamento ideologico che ha guidato il modo di fare, e specialmente di insegnare, l’architettura dell’ultimo secolo.
Dobbiamo trovare il coraggio di mettere in dubbio le divinità architettoniche nelle quali ci è stato insegnato dover credere. Dobbiamo esser sospettosi nei confronti dei nuovi guru che, pretendendo di dover reinventare la ruota ogni giorno, sostengono di poter derivare le proprie conoscenze da se stessi. Occorre divenire umili e imparare a guardarci alle spalle, alla ricerca delle grandi lezioni del nostro glorioso passato, che non necessariamente è così antico.
… Infatti, semplicemente poco prima del IV CIAM, molte grandi conquiste erano state raggiunte in termini di urbanistica, equità sociale, integrazione, economia, ambiente, ecc.[7]
In quei giorni – un periodo di massima fioritura della filantropia – grazie alla competente collaborazione tra esperti di molte discipline, le nostre città sono cresciute e si sono sviluppate nel rispetto dei luoghi e della gente, senza per questo escludere gli interessi privati … quando abbiamo perduto questo equilibrio, dando troppo (o esclusivo) peso agli interessi privati, il nostro mondo è andato sottosopra!
Se davvero vogliamo, nel rispetto dell’ambiente, generare luoghi vivibili, abbiamo bisogno di resettare il sistema, mettendo da parte i “menzogneri promotori della sostenibilità”: non abbiamo bisogno dei nuovi guru, inventori di nuove soluzioni per problemi ancora inesistenti, ci serve solo affrontare i problemi esistenti, risolvendoli grazie ai criteri che si sono già dimostrati validi, ciò che però risulta indispensabile è la necessità di riposizionare l’uomo e il rispetto della natura al centro del processo risolutivo.
Se quindi miriamo ad uno sviluppo urbano sostenibile, non possiamo escludere alcun parametro, vale a dire che ogni ambiente urbano dovrà riconoscersi come rispettoso dei diritti dei pedoni, dei ciclisti, dei bambini, degli anziani, dei disabili, di tutte le classi sociali, delle economie locali, dell’artigianato, delle tradizioni locali, della storia locale, dei materiali locali, del trasporto pubblico, delle minoranze … delle generazioni future!
Se questo è vero, abbiamo necessità di cambiare il termine più abusato degli ultimi decenni e, piuttosto che parlare di “città sostenibili”, dovremmo iniziare a parlare di “città ereditabili”.
Gli esseri umani sono di passaggio; il mondo non gli appartiene, perché appartiene alle generazioni future. Come il bravo inquilino con la sua casa, gli uomini devono lasciare il mondo ricevuto in prestito dalle future generazioni come e meglio di come l’hanno ricevuto, sì che i successori possano farne buon uso.
Come recita l’iscrizione del Palazzo Canossa di Verona mostrata in apertura, ogni luogo dovrebbe essere realizzato affinché i figli e la loro progenie possano viverlo nei secoli a venire … tutto il resto è menzogna!
[1] Infatti nel capitolo – Obbligazioni del Mandatario, art. 1710 (Diligenza del mandatario) si legge: «Il mandatario è tenuto a eseguire il mandato (2030, 2392, 2407, 2608) con la diligenza del buon padre di famiglia» (1176 – diligenza nell’adempimento).
[2] Citazione dalla Relazione allegata al Concorso per il Progetto di un Tipo di Casa Popolare per Roma redatto in occasione del II Congresso delle Case Popolari del 1911.
[3] Cfr. Ettore Maria Mazzola, “The Sustainable City is Possible – La Città Sostenibile è Possibile”, (Prefazione di Paolo Marconi) Gangemi Editore, Roma 2010
[4] Cfr. Ettore Maria Mazzola, “Contro Storia dell’Architettura Moderna in Italia, Roma 1900-1940 – A Counter History of Modern Architecture in Italy, Rome 1900-1940”, Alinea Editore, Firenze 2004
[5] Le Corbusier, La ville radieuse, Eléments d’une doctrine d’urbanisme pour l’équipement de la civilisation machiniste. Parian, Genève, Rio de Janeiro, Sao Paolo, Montevideo, Buenos-Aires, Alger, Moscou, Anvers, Barcelone, Stockholm, Nemours, Piace. Editions de l’Architecture d’aujourd’hui, Boulogne (Seine), 1935.
[6] F. Léger, Discours aux architectes, “Technika Chronika/Annales Techniques”, n. 44-45-46, 1933, pp. 1160-1161.
Cfr anche: Ettore Maria Mazzola “Dietro il Modernismo: Alcune Verità Nascoste“– blog De-Architectura, Luglio 2009
http://www.de-architectura.com/2009/07/dietro-il-modernismo-alcune-verita.html
Ettore Maria Mazzola “Proposal for a “new” sustainable urbanism of Mediterranean Basin“ – web site Academia.edu
https://www.academia.edu/10433682/Proposal_for_a_new_sustainable_urbanism_of_Mediterranean_Basin
[7] Cfr. Ettore Maria Mazzola, “The District Testaccio in Rome and the policy of the ICP (Institute for Social Housing) at the dawn of its existence: an important example to be learnt “– web site Academia.edu
È un articolo interessante nonostante il.tuo fondamentalismo al contrario.
La posizione è credibile soprattutto in relazione alla necessità di dare una svolta radicale agli esiti della architettura ed urbanistica degli ultimi 80 anni.
Sappiamo tutti che però non è ben compresibile quali dovrebbero essere i risultati estremi di un così radicale cambio di programma.
Probabilmente la più realistica soluzione sta in una “via di mezzo” nella quale soprattutto l’urbanistica dovrebbe avere un ruolo nodale.
Certo è che dovremmo intenderci bene su cosa sia l’urbanistica.
Il moderno ha prodotto architettura interessante anzi addirittura bella , l’urbanistica (o cosa? ) gli ha prodotto intorno il degrado. Il discorso è ampio.
Il progetto di una città consiste da sempre nel consentire la trasformazione di terreni liberi in lotti edificabili, tracciando strade sulle quali schierare le case scandite da varie forme di strade più larghe e di piazze per qualche iniziativa collettiva.
Questa è stata anche la nostra città fino alla metà del XX secolo, quando è stata contestata appunto dai futuristi e con maggiore efficacia da Le Corbusier.
La cosa curiosa è che non è mai stata suggerita contestualmente una convincente critica della città tradizionale, dove infatti i più fortunati di noi riescono a procurarsi una casa, sicché la cosa più semplice sarebbe di imparare di nuovo a disegnare una città, come del resto Frezzotti aveva disegnato Littoria
Perchè dovremmo disegnare una città oggi? Si tratta di imparare a fare cose più semplici. Una di queste è imparare ad “aggiustare gli spazi” degradati da anni di incuria e incapacità. Sul tema del linguaggio architettonico non si può essere che molto cauti. Non si può infatti slegare l’espressione da quella che è la condizione culturale umanistica e tecnologica o civile di una società. E’ anche vero che l’architettura, ovvero l’architetto, come tutte le pratiche derivanti da professioni può indirizzare la società ma in senso anche ordinativo, diciamo del disporre, del normare, del regolare come si dovrebbe fare anche attraverso una buona pratica urbanistica che prima ancora di lanciarsi nel macro dovrebbe essere attenta nel micro al fine di rendere coerente con il tessuto di base della città (strade , piazze, commercio) i volumi che su di esso si costruiscono. Spesso si sbaglia per assoluta incapacità dei pianificatori addetti alla definizione di certe operazioni. e una grande responsabilità hanno in questo le orde di ordinari incapaci che da sempre popolano le nostre università tesi più alla gestione dei fondi dipartimentali che alla effettiva ricerca di soluzioni per un “mondo migliore”. In questo senso Roma è un chiaro esempio di quanto può essere disgraziata la sorte (la sua) da quando fu lasciata in mano a tutta una serie di incompetenti professionisti, anche pubblici, per esempio nella definizione di tutti quei piani di zona che dalla metà degli anni 80 fino fino più o meno al 2010 hanno contribuito alla devastazione dei limiti della città.