Privatizzazioni deleterie e municipalizzazioni virtuose

Ogni qualvolta ci si trovi davanti alla necessità di ripianare i conti pubblici, chi governa l’Italia pensa che il sistema più pratico e veloce risulti quello di fare tagli alla spesa pubblica (cultura e sanità in primis) e svendere il nostro patrimonio culturale … è un vero peccato che certi miopi politici non riescano a rendersi conto che quel patrimonio dovrebbe essere considerato come la maggiore risorsa economica italiana, in grado di emancipare il Bel Paese dall’economia globalizzata.

Messaggio inequivocabile sul display di un autobus romano in sosta a Piazza Augusto Imperatore

In questi giorni, dopo aver assistito all’inqualificabile vicenda del Colosseo[1] che il ministro Franceschini vorrebbe togliere al Comune di Roma, il Partito Radicale (quello del candidato sindaco Roberto Giachetti) si è fatto promotore di un referendum per la privatizzazione dell’ATAC[2].

Giorni fa, nel mio il mio sfogo su FB, avevo scritto:

«Ma come è possibile promuovere un referendum per la privatizzazione dell’ATAC, piuttosto che imporsi per la sua totale municipalizzazione, estromettendo quelle ditte che in questi anni hanno operato per infangare e distruggere il servizio pubblico, affinché venisse definitivamente privatizzato?
Perché questi signori, prima di promuovere l’ennesima svendita, non indagano sul fatto che, da anni, si è operato un vero e proprio complotto a danno del servizio pubblico, appaltando a privati alcune linee (che, guarda caso, risultano frequenti) su mezzi dell’ATAC, mentre venivano tagliate sempre più le linee a gestione pubblica?

Perché non si documentano sul come e perché, durante l’amministrazione Alemanno vi fu un taglio consistente delle corse ed un aumento del biglietto da € 1 a € 1,50, scomparvero gli abbinamenti ridotti per studenti e anziani e la tessera mensile passò a € 35, e ci furono delle “strane” assunzioni?

Perché non si domandano come mai dei privati dovrebbero avere interesse a gestire un servizio di trasporto? … Se lo fanno vuol dire che può rendere … perché quindi non dovrebbe essere il Comune a guadagnarci?

Chi svolgerebbe il ruolo di calmiere?

Quali sarebbero i casi in cui, dopo la privatizzazione, avremmo registrato un miglioramento del servizio? [… ]»

Ebbene, già nel 2014 avevo scritto sull’argomento (invito tutti a leggere quell’aneddoto e le mie riflessioni per intero[3]), sicché oggi, a tre anni di distanza, è interessante constatare come quelli che erano i miei dubbi e sospetti, vadano concretizzandosi … tra l’altro per mano del partito di Giachetti il quale, oltre a figurare nelle liste del Partito Radicale figura anche in quelle del PD, reggente all’epoca dei fatti raccontati!

In quell’articolo parlando dell’esperienza vissuta con altre persone in attesa di un autobus mai giunto a destinazione, riportavo una serie di informazioni che avevo scoperto grazie ad una dritta datami da un autista che avevo interrogato, in particolare raccontavo:

«[… ] Trascorsa ormai un’ora abbondante, senza che all’orizzonte si manifestasse la presenza dell’autobus, ho deciso di chiedere ad un autista della linea 881 se avesse notizia dell’870 o se potesse indicarmi qualcuno a cui rivolgermi, visto che l’inutile e orrendo chiosco dell’ATAC posto al capolinea davanti alla Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, è chiuso e abbandonato da tempo.

La risposta è stata che lui non ha nulla a che fare con l’ATAC perché l’881 e altre corse dipendono da un’altra compagnia e le loro corse vengono appaltate direttamente dal Comune!

A questa risposta, ormai malpensante, la mia mente è andata al sistema delle assunzioni all’ATAC avvenute durante la precedente giunta, nonché a quello degli appalti che sta venendo fuori in questi giorni.

Mi sono documentato e, effettivamente, visitando la pagina del Comune di Roma ho scoperto che:

“La progressiva attuazione delle riforme che hanno interessato, nell’ultimo decennio, il settore dei trasporti pubblici locali ha portato all’affermarsi, nell’ambito territoriale comunale, del cosiddetto “modello romano” teso ad assicurare l’equilibrio tra la funzione pubblica e libero mercato.

Il sistema della mobilità romana è stato, infatti, orientato verso la definizione di tre livelli di competenza:

1) un’area di competenza politica, incarnata dal Comune di Roma;

2) una funzione gestionale ed organizzativa, affidata alla società Atac S.p.A.;

3) una funzione meramente erogatrice del servizio, affidata alle società che operano nel mercato (Trambus S.p.A., Met.Ro S.p.A., FS e Co.Tra.L S.p.A.)”[4].

Molto interessante, specie in questo particolare momento che vede emergere lo sporco sistema degli appalti romani, veder sbandierare sul sito istituzionale del Comune un presunto “modello romano” in materia di trasporto pubblico!

Inutile dire che, per disperazione alla fine, pur avendo un abbonamento mensile alle linee di trasporto pubblico, son dovuto rientrare a casa in taxi pagando 9 euro!

Vorrei sapere dal nostro sindaco, e dai dirigenti dell’ATAC, se questo “modello romano” cui fanno riferimento non mascheri una sporca strategia per dissuadere i romani dall’uso dei mezzi pubblici!

Non nascondo che, già in passato, mi aveva sfiorato l’idea che in Italia potessero esserci delle specifiche pressioni, da parte dei produttori automobilistici, affinché accadessero certe cose! … Del resto la lezione americana degli anni ’40 – ’50, quando la più importante casa produttrice di automobili acquistò tutte le reti di trasporto pubblico, per smantellarle ed obbligare gli americani all’acquisto dell’auto – presentando la cosa come emancipazione dalla schiavitù dei trasporti pubblici – non può non aver fatto scuola!

Non può non destare sospetti ciò che è accaduto negli ultimi anni quando, durante la giunta Alemanno, il costo dei biglietti e degli abbonamenti ha subito un incremento notevole (da € 1,00 a € 1,50 i primi e da € 30,00 a € 35,00 i secondi) eliminando le agevolazioni per anziani e studenti e riducendo drasticamente il numero delle corse e la manutenzione dei mezzi!! … Per par condicio c’è da dire che anche Marino ha fatto la sua parte, consentendo la recente soppressione di molte linee che hanno lasciato nello sconforto molti romani.

A tal proposito viene da riflettere sul fatto che, come in tutti i processi di privatizzazione messi in atto in Italia, potrebbe essere in atto un programma specifico per degradare e screditare le linee di trasporto pubblico, in modo da far crescere il malcontento tra i cittadini – fomentandolo con campagne ad-hoc – spianando così la strada al passaggio definitivo di tutta la gestione del trasporto in mano ai privati!

E pensare che, nonostante lo sfascio della cultura data in gestione ai privati (che poi ricattano lo stato con guadagni privati e spese pubbliche), in Italia ci sono imbecilli che ancora credono che privatizzare significhi migliorare le cose».

Alla luce di quanto sta accadendo in questi giorni, mi sembra che i miei sospetti fossero fondati, ma non chiamatemi Nostradamus o Cassandra, né datemi del complottista …

Andando ancora indietro nel tempo e pensando alla folle svendita e/o privatizzazione dell’Italia, la mia mente va ad un altro mio articolo pubblicato nel 2013[5], quando l’ex Premier Enrico Letta nel corso del suo viaggio negli USA trovò il modo per rassicurare la lobby degli speculatori che tengono sotto scacco il pianeta, rilanciando il suo scellerato programma di svendita totale del patrimonio italiano ad investitori privati stranieri.

All’epoca mi chiedevo come fosse possibile che i nostri politici non si rendessero conto del fatto che, il ventennio di svendita precedente avesse portato il nostro Paese sull’orlo del baratro. Né quindi bastasse a far capire che occorrerebbe rivedere per intero le nostre politiche economiche.

Mi chiedevo:

Che garanzie può dare una classe politica di individui il cui unico obiettivo è quello di mantenere inalterati i propri benefici, piuttosto che il futuro della nazione?

Che garanzie può dare una classe politica che, per mantenere salda la propria poltrona, preferisce svendere per trenta denari quel patrimonio che potrebbe dar da campare a tutte le generazioni a venire?

Che garanzie può dare una classe politica che, piuttosto che investire sulle statalizzazioni e municipalizzazioni, preferisce svendere tutto al “miglior offerente” senza mai imparare dagli errori compiuti?

Che garanzie può dare un governo come quello attuale che, analogamente a quelli precedenti presieduti da Berlusconi prima e Monti poi, è basato sul conflitto di interessi?

Ricordavo:

A tal proposito, nel suo intervento in Parlamento del 22 ottobre 2013, l’on. Carlo Sibilia del M5S ha esposto in maniera ineccepibile i criteri in base ai quali l’attuale governo nasca all’interno della Fondazione di Enrico Letta denominata “Vedrò”, una fondazione sponsorizzata da Autostrade per l’Italia, Enel ed ENI – ovvero aziende che dettano la politica estera ed ambientale dell’Italia – nonché dalla Nestlé e dal Gruppo Cremonini. Inoltre, ha spiegato Sibilia, “Vedrò” è anche finanziata dalla lobby delle slot machines alla quale il governo ha “condonato” svariati miliardi di evasione fiscale, nonché dalla Omnia Holding, ovvero una società che controlla Alitalia, vale a dire quell’azienda privata fallimentare appena salvata dal governo con il denaro pubblico della Cassa Depositi e Prestiti.

Nel suo intervento Sibilia ha altresì ricordato come l’attuale governo, dopo aver svenduto la Telecom alla compagnia spagnola Telefonica abbia annunciato, da parte del Presidente del Consiglio in persona in occasione del suo recente viaggio negli USA, l’intenzione di svendere anche le quote di mercato di Fincantieri e Terna. A tal proposito, l’on. Sibilia ha anche ricordato come il 14 ottobre sia stata istituita dal governo l’agenzia INVIM il cui scopo risulta esser quello di “dismettere il patrimonio immobiliare italiano”.

Tutto questo mentre oltre l’8% degli italiani vive al di sotto della soglia di povertà, il tasso di suicidi causati dalla disperazione economica stia crescendo in maniera esponenziale, il livello di disoccupazione giovanile abbia sfondato il 40% e tutto stia andando allo sfascio.

E riflettevo sulla massima dell’australiano Jeff Sparrow:

tutto quello che ci faceva paura del comunismo – che avremmo perso le nostre case e i nostri risparmi, che ci avrebbero costretti a lavorare tutto il tempo per un salario scarso e che non avremmo avuto alcuna voce contro il sistema – è diventato realtà grazie al capitalismo“.

È mai possibile che l’avidità e l’egoismo di questi individui, non eletti dai cittadini italiani e protetti da un sistema inqualificabile che vede coinvolte le più alte cariche dello Stato, possa permettersi di smantellare un Paese che il mondo intero continua a definire “il Bel Paese“?

Come è possibile che questi individui possano fingere di non accorgersi che nulla di ciò che è stato privatizzato in questi venti anni abbia dimostrato alcun beneficio per la nazione, né per le aziende privatizzate stesse?

E allora che fare? Può il popolo italiano – già lasciato in mutande – restare inerte consentendo a questi dis-onorevoli politici di continuare a svendere per i propri interessi?

Chiediamoci ancora una volta: ma se un privato ha interesse ad investire nel sistema di trasporto pubblico ritenuto fallimentare, è un pazzo masochista suicida? … oppure sa che ci si può guadagnare? E se sì, perché non dovrebbe farlo il Comune? Non sarà mica che il problema risieda nella manifesta incapacità di certi “manager” super pagati e nominati politicamente?

Per come la vedo io, e per quanto ho avuto modo di studiare e scrivere nel corso degli anni, piuttosto che re-inventare la ruota davanti a problemi per i quali esista già una soluzione, penso che sarebbe necessario provare a ristudiare la nostra storia, alla ricerca di lezioni del nostro passato, nemmeno tanto remoto, dalle quali possa trarsi l’insegnamento per poter ribaltare le sorti del Paese.

Ai promotori della privatizzazione del servizio di trasporto romano, e a tutta la classe politica voglio allora raccontare un piccolissimo aneddoto dell’Italia di cento anni fa, un aneddoto del quale ho scritto ne “La Città Sostenibile è Possibile” e che ha ispirato i miei progetti per la Rigenerazione Urbana del Corviale di Roma e dello ZEN di Palermo.

Si tratta di un aneddoto che ci ricorda come, certe volte, per uscire dalla mischia bisognerebbe entrarci per intero, un aneddoto che, se ben compreso ed esteso a tutti i campi dell’economia nazionale, potrebbe aiutarci a capire come sarebbe possibile generare occupazione, risanando al contempo le nostre città e l’economia del Paese.

Qualcosa da cui imparare

La conoscenza della nostra storia potrebbe esserci d’aiuto, rievocandoci le frumentationes (distribuzioni gratuite del grano) che gli antichi romani istituirono quando gli armatori privati che gestivano il commercio del grano approfittarono della “liberalizzazione” del mercato, speculando sul prezzo. La cosa servì a calmierare il prezzo ed obbligare gli speculatori ad abbassare la cresta.

Ma non occorre andare così lontano per imparare cosa fare per porre un freno allo sperpero di denaro pubblico.

La storia dell’urbanistica di Roma ci racconta infatti di una politica illuminata di gestione della spesa pubblica, messa in atto solo un secolo fa, da cui avremmo tanto da imparare. Per una migliore comprensione dei fatti è necessario conoscere il quadro sociale all’interno del quale l’evento si svolse, quindi perdonatemi l’estensione del testo.

Il Comune di Roma, a causa della cosiddetta politica urbanistica della convenzione[6]  – orchestrata dal Cardinale De Merode a favore di se stesso e dei privati speculatori fondiari – all’indomani del trasferimento della Capitale d’Italia, aveva subito un tracollo finanziario.

Fu così che all’inizio del Novecento, grazie all’operato di personaggi illuminati di cui si dirà, il Comune provò, riuscendoci appieno, a sanare il bilancio entrando in regime concorrenza con i costruttori privati.

«In una città che ha l’edilizia come sua unica attività industriale, il deficit dell’amministrazione può essere sanato proprio con una diretta partecipazione in tale ramo di investimenti[7]».

Grazie alla politica illuminata del sindaco Nathan, e alla presenza al governo di Giovanni Giolitti, nonché grazie alla istituzione e gestione dell’Istituto per le Case Popolari, fu possibile concepire un sistema del tutto nuovo di gestione della spesa per l’edilizia pubblica, il cui primo passo può riconoscersi nella vicenda del Quartiere Testaccio di Roma.

All’inizio del XX secolo il quartiere risultava un luogo malfamato, violento e pericoloso. Dopo l’unità d’Italia il quartiere avrebbe dovuto svilupparsi come la zona industriale della nuova Capitale ma poi, per volontà dei regnanti, si pensò bene che il centro-sud d’Italia non dovesse essere investito dal processo di industrializzazione … era più utile mantenerlo in condizioni tali da poter fornire manodopera a basso costo per le industrie del nord, trasformando Roma in una città impiegatizia che, di lì a poco, sarebbe anche divenuta il cuore pulsante della politica clientelare e ricattabile.

Così, già a partire dai primi anni che seguirono il trasferimento della Capitale, Testaccio divenne un quartiere popolare dove si insediarono le famiglie dei lavoratori del nuovo straordinario Mattatoio dell’ing. Ersoch, e quelli delle poche industrie situate all’Ostiense.

In assenza di un Ente Statale che costruisse le case per il ceto operaio – l’ICP venne creato solo nel 1903 – queste vennero realizzate ad opera di banchieri, famiglie nobili e ad opera della Chiesa; tuttavia, nonostante le indicazioni della giunta municipale presieduta da Camporesi affermassero che «non si ammettono quartieri destinati esclusivamente per la classe meno agiata, raccomandandosi invece che venga distribuita in opportuni alloggi collocati nelle abitazioni ove soggiornano le classi meglio favorite dalla fortuna»[8], gli edifici costruiti mirarono semplicemente a fornire una facciata decorosa, che nascondeva delle condizioni di vita disumane.

La tipologia edilizia scelta, per ragioni speculative, fu quella a “blocco chiuso“, che facilitava una speculazione intensiva delle aree, ovvero quella tipologia che, di lì a poco, venne criticata come “casermone” o “alveare umano“, all’interno della quale, sotto l’egida del padrone di casa, vigeva il sistema del subaffitto; sistema perverso che serviva al proprietario per giustificare il costante aumento della pigione, e all’affittuario per spillare soldi ai subaffittuari con la scusa che non ce la faceva a pagare l’affitto. La cosa ovviamente portava alle estreme conseguenze che si possono immaginare: mancanza di privacy, violenze di ogni genere, danneggiamento degli edifici, condizioni di sovraffollamento con pessime condizioni igieniche, ecc.

Testaccio nel 1905 rappresentava un problema anche superiore a quello registrato nel 2005 nelle banlieues francesi. Le condizioni abitative di quel quartiere vennero descritte minuziosamente da Domenico Orano il quale, a seguito della sua esperienza diretta tra il 1905 e il 1910 pubblicata in quegli anni, creò il Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio, un comitato che raccoglieva persone di qualsiasi appartenenza sociale, religiosa, politica e culturale, nonché diverse categorie di artigiani.

Il Comitato riuscì a mettere in pratica la prima grande esperienza di laboratorio sociale e, soprattutto, la prima esperienza, riuscitissima, di urbanistica partecipata: l’urbanistica come disciplina non era ancora ufficialmente stata definita, ma ciò che avvenne a Testaccio dimostra come per questi pionieri il senso ultimo della materia fosse già chiaro!

Orano e altri riformatori ritenevano «dannosa la pianificazione di quartieri socialmente omogenei perché favorivano l’innalzamento e la cristallizzazione delle barriere classiste, rallentando il processo di integrazione urbana dei ceti subalterni»[9] mentre «il contatto fra le varie classi sociali vale non solo ad abbattere certe barriere morali … ma può avere un’influenza benefica sulle condizioni economiche ed intellettuali in genere del popolo»[10].

Nel frattempo, la migrazione verso Roma cresceva, e con essa anche la migrazione interna del ceto popolare che, necessitando di vivere vicino al proprio ambiente lavorativo, spontaneamente si muoveva verso la nuova area, a questi flussi spontanei si sommava il fenomeno della migrazione interna della gente allontanata dalla zone centrali in cui si operavano i primi sventramenti che, secondo l’ideologia del momento, dovevano creare dei nuovi quartieri “di rimprovero e insegnamento” nella “vecchia Roma lercia e puzzolente” come l’aveva definita Giovanni Faldella[11].

Tutto ciò portò alla proliferazione di baracche, definite “Villaggio Abissino” lungo gli argini del Tevere: un’offesa al decoro della Capitale che non poteva essere ammessa dalla classe dirigente.

In quegli anni, intanto, si era andata affinando la disciplina dell’Eziologia, ma si erano anche andati sviluppando diversi studi sociologici come quelli di Casalini a Torino e Montemartini a Milano; inoltre, quest’ultimo aveva studiato i metodi per la creazione di un sano sistema cooperativo coordinato dallo Stato.

Se da un lato si pensava a creare delle città più “funzionali“, grazie al contributo dei sociologi si rifletteva anche sul fatto che non ci si dovesse limitare a “produrre meglio per vivere meglio“, ma fosse necessario soprattutto “vivere meglio per produrre meglio“.

In questo clima socio-culturale, il Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio si batté affinché l’intervento proposto dall’amministrazione cittadina per la costruzione di alloggi temporanei non si operasse: «l’intervento non deve limitarsi a soddisfare il bisogno impellente di abitazioni, ma richiede un piano complessivo in grado di trasformare l’intera area».

A quel tempo, i privati avevano costruito moltissimi alloggi per i ceti medio-alti della borghesia, dimenticando i ceti popolari. Questa situazione aveva, di fatto, creato uno squilibrio insostenibile tra alloggi a caro prezzo e carenza di alloggi popolari, aveva portato al terribile fenomeno della coabitazione (tuttora esistente ed ignorato), alla costruzione delle baraccopoli e, ovviamente, alla crescita esponenziale del valore fondiario.

La neoeletta giunta Nathan – la prima non legata al clero e alla nobiltà – intendeva risolvere il problema abitativo a partire dalla risoluzione del problema speculativo dei suoli mediante la formazione di un ampio demanio municipale che avesse la funzione di calmiere, e il potenziamento dell’edilizia pubblica sovvenzionata: il Congresso Internazionale sull’Edilizia Popolare che si tenne a Londra nel 1909, non a caso, aveva individuato nel mercato delle aree la ragione della crisi delle città, ed aveva indicato come rimedio una vasta acquisizione di aree da parte degli enti pubblici al fine di destinarle ad uso collettivo, rompendo la spirale speculativa.

In quegli anni Alessandro Schiavi indicava tre passi fondamentali per sconfiggere il problema:

  1. Rompere il monopolio dei proprietari terrieri dei terreni e delle abitazioni esistenti;
  2. Attirare il capitale privato nell’attività edilizia;
  3. Incentivare la ricerca tecnologica per ridurre i costi.

Tutto ciò si traduceva nella necessità che l’amministrazione pubblica, statale e locale, assumessero un ruolo pianificatorio, ma anche che lo Stato sostenesse l’imprenditoria privata e sovvenzionata per aumentarne la produttività.

Sempre in quagli anni, l’ing. Edoardo Talamo andava sostenendo la necessità che «la casa dei ceti popolari dovesse essere strumento di educazione ed emancipazione, coniugando gli spazi privati degli appartamenti agli spazi comuni per assolvere ai bisogni comuni»[12].

Considerate queste premesse relativamente al costo dei suoli, uno dei principali motivi di critica da parte del Comitato per il Miglioramento di Testaccio relativamente alle casette provvisorie batteva sull’antieconomicità di un piano che sottoutilizzava le aree, tra l’altro, la «destinazione delle case ai disoccupati, prevedeva una rinuncia in partenza a qualsiasi remunerazione del capitale investito, ricadendo in una logica di assistenzialismo elemosiniero che ostacola la crescita della responsabilità civile tra i ceti emarginati», infine, il progetto era valutato «socialmente e politicamente angusto, poiché sanciva con un’operazione istituzionale la marginalizzazione dei baraccati».

Uno degli aspetti più interessanti della battaglia di Orano e del Comitato era incentrata contro la negazione, emergente dal piano delle casette, di un’identità collettiva fondata sull’orgoglio dell’appartenenza ad una comunità operaia di lavoratori, che contribuendo alla crescita dell’intera città, avevano acquisito il diritto di determinarne le scelte[13]:

«Si afferma che le baracche sono pel bisogno immediato, per i senza tetto, per i poveri che ingombrano i portoni, le mura, gli orti, i prati, che gettano un’onta sulla capitale d’Italia, che agli occhi degli stranieri ribadiscono l’accusa che noi siamo un popolo di pezzenti. Si larva con sentimentalismo da filantropi, che impressiona le masse, il grave problema edilizio … che in realtà soffoca lo sviluppo di Testaccio, perché questo quartiere è l’unico punto di Roma in cui convergano le vie di terra e di mare e sarà il grande centro operaio della capitale»[14].

Le varie richieste dei testaccesi vennero raccolte e trasformate in progetto urbanistico architettonico da parte degli ingegneri architetti Giulio Magni prima, e Quadrio Pirani poi, i quali furono in grado, lavorando fianco a fianco con il Comitato, di produrre il primo esempio di progettazione partecipata che portò ad un vero e proprio miglioramento della condizione abitativa, ma anche economica e sociale dei residenti, dando delle aspettative di vita totalmente nuove e dimostrando la validità della teoria secondo la quale la casa potesse svolgere un ruolo educativo sui residenti.

Nel 1918, all’indomani dell’inaugurazione degli edifici di Pirani, il Presidente dell’Istituto Romano Case Popolari, Malgadi, nel testo “il nuovo gruppo di case al Testaccio” affermava:

«Parlare di arte in tema di case popolari può sembrare per lo meno esagerato; ma non si può certo negare l’utilità di cercare nella decorazione della casa popolare, sia pure con la semplicità imposta dalla ragione economica, il raggiungimento di un qualche effetto che la faccia apparire, anche agli occhi del modesto operaio, qualche cosa di diverso dalla vecchia ed opprimente casa che egli abitava […] Una casa popolare che, insieme ad una buona distribuzione degli appartamenti unisca un bello aspetto esteriore, è preferita ad un’altra […] e dove questo vi è si nota una maggior cura da parte degli inquilini nella buona tenuta del loro alloggio e in tutto ciò che è comune con gli alloggi del medesimo quartiere […] Una casa che piace si tiene con maggiore riguardo, ciò vuol dire che esercita anche una funzione educativa in chi la abita».

Subito dopo, lo slogan dell’IRCP divenne “la casa sana ed educatrice“.

Ma la battaglia non vide affrontare solo gli aspetti socio-sanitari ed estetici delle nuove costruzioni, ma anche quelli economici, partendo dall’affermazione secondo la quale il lavoro nobilita l’uomo … e qui viene il punto più importante di questa storia sul quale l’attuale classe politica di “privatizzatori” e “svenditori” dovrebbe riflettere!

In quegli anni Montemartini aveva teorizzato ampiamente in materia di cooperativismo, e la Roma di quegli anni sembrava essere più che altrove l’incarnazione di quel “partito dei consumatori” in base al quale Montemartini sosteneva si potesse impostare una corretta politica di governo urbano, di qui la scelta di coinvolgere nella politica progressista, non solo il ceto popolare, ma anche quello della piccola e media borghesia.

Montemartini, in qualità di Assessore, nonché di Direttore dell’Ufficio del Lavoro presso il Ministero dell’Agricoltura, diede un apporto teorico fondamentale alla legittimazione delle municipalizzazioni: L’assunzione di nuovi compiti imprenditoriali e di pianificazione da parte degli enti locali incontrava, in Italia, come in Europa e America, un deciso consenso da parte dei liberali che vedevano ridisegnato e reso ambiguo il confine tra competenze dei pubblici poteri e imprenditoria privata, e l’aperta ostilità dei cattolici.

Come ha ricordato Sanfilippo, “l’incontro del sindaco Nathan con Montemartini fu alla base delle principali realizzazioni della Giunta Nathan nella municipalizzazione e/o riorganizzazione dei servizi pubblici (acqua, elettricità, gas, trasporti collettivi)[15]

Fu così che si andò sviluppando l’idea che la costruzione di Testaccio potesse costituire un’occasione per rafforzare il sistema delle cooperative romane, una buona parte delle quali era proprio costituita da testaccesi.

Il presidente dell’IRCP Vanni decise così di non appaltare i lavori ad un’impresa privata (Ricciardi-Mannaiolo) che aveva messo a disposizione 10 milioni impegnandosi a costruire tutti gli edifici in 18 mesi, ma di affidare i lavori ad 11 diverse cooperative:

«La proposta dell’impresa presentava indubbi vantaggi: l’anticipo del denaro che doveva essere erogato dallo Stato, tramite un prestito agevolato garantiva tempi più brevi per la realizzazione del progetto. L’amministrazione capitolina si sarebbe politicamente rafforzata, dimostrando di essere in grado di soddisfare rapidamente il bisogno, impellente per la popolazione, di case a basso costo. La scelta, viceversa, di affidarsi alle cooperative, voluta dai socialisti, intendeva dimostrare la possibilità concreta di creare anche a Roma un tessuto produttivo alternativo alle imprese private»[16].

Orano e il Comitato, con la costruzione delle case di Testaccio, memori della lezione di Montemartini sulla gestione della città moderna fondata sul partito dei consumatori, tentarono di fondare un modello di democrazia partecipata in cui i soggetti sociali fossero, allo stesso tempo, produttori e consumatori del bene casa … e così fu, grazie anche all’esistenza Comitato Centrale Edilizio[17] e dell’Unione Edilizia Nazionale – «un Istituto che è fatto appositamente per integrare gli sforzi delle cooperative, quindi per controbilanciare la privata speculazione»[18] – finché, per volontà di Stato, durante il ventennio fascista l’Unione venne messa in liquidazione e sciolta[19] e l’Istituto per le Case Popolari non venne ridotto da florida azienda che costruiva in proprio e anche per conto terzi gli edifici da gestire, a semplice Ente di gestione del patrimonio edilizio costruito dai privati.

Ebbene sì, l’ICP di cento anni fa aiutò a risollevare le fallimentari finanze comunali, generò migliaia di posti di lavoro consentendo altresì lo sviluppo di una vasta economia locale di piccole e medie imprese a carattere artigianale.

Perché quindi non dovremmo oggi far tesoro da quell’insegnamento?

E se questo è ciò che riguarda il solo settore edilizio, perché non dovremmo prendere spunto da questa storia per riflettere sui danni che le privatizzazioni hanno portato nella gestione del patrimonio artistico, nel sistema dei trasporti pubblici, nella gestione dello smaltimento dei rifiuti, nella produzione e gestione dell’energia e dell’acqua, nel sistema delle banche, ecc.?

Che dire poi della vergogna della vicenda delle acciaierie italiane?

Perché, piuttosto che investire nelle cosiddette “grandi opere” che prevedono costi pubblici e guadagni privati, non pensare alla realizzazione di “opere grandi“, gestite a livello statale e comunale come all’epoca d’oro dell’ICP e che, piuttosto che costare, potrebbero rendere?

Considerato che non è più ammissibile continuare ad alimentare un sistema marcio che sembra non aver alcun altro scopo se non quello di sperperare il denaro della comunità ed aumentare il debito pubblico, potremmo dunque pensare di mettere in atto un nuovo criterio il quale, piuttosto che promuovere le “liberalizzazioni” e le “privatizzazioni“, miri a creare delle strutture statali e municipalizzate che operino in concorrenza con l’imprenditoria privata, alla stessa stregua delle frumentationes degli antichi romani.

… La cosa gioverebbe non poco alla società.

Piuttosto che promuovere leggi tendenti a massacrare il mondo del lavoro, leggi che mirano a tutelare solo gli interessi di banche private ed aziende le quali, piuttosto che dar da lavorare agli italiani, producono il “Made in Italy” in Paesi che consentono lo sfruttamento della manodopera in semi schiavitù, lo Stato potrebbe creare un Ente simile a quello che vedeva Comitato Centrale Edilizio e l’Unione Edilizia Nazionale operare in modo da integrare gli sforzi delle cooperative per controbilanciare la privata speculazione.

Ne scaturirebbero migliaia e migliaia di posti di lavoro a tempo indeterminato, nonché un grande sviluppo della piccola e media imprenditoria locale, e soprattutto dell’artigianato locale, che l’Ente potrebbe coordinare.

Proviamo allora ad immaginare quanto meno verrebbero a costare le Grandi Opere se venissero costruite da chi dovrebbe amministrare la spesa pubblica con la diligenza del buon padre di famiglia, proviamo ad immaginare come lo Stato che costruisce e gestisce i suoi edifici non tenderà più ad operare secondo il principio del “prendi i soldi e scappa“, ovvero fregandosene dei futuri costi di manutenzione degli edifici pubblici, costruiti con tecniche e materiali deperibili.

Proviamo ad immaginare ad una politica che scoraggi l’uso dell’automobile, promuovendo uno sviluppo dei mezzi di trasporto pubblico ecologici che passino con una frequenza ed una puntualità da fare invidia a Londra … proviamo ad immaginare quali benefici potrebbero ottenere l’intera collettività e l’ambiente.

Proviamo infine ad immaginare quello che potrebbe essere il ritrovato potere d’acquisto di questa grande fetta di popolazione, non più disoccupata o precaria, equamente distribuita sul territorio italiano senza rischi di mobilità.

Questa ritrovata garanzia di futuro riporterebbe i giovani italiani a credere nella possibilità di metter su famiglia!

Voglio ricordare a coloro i quali parlano di sostenibilità prendendo in considerazione solo gli aspetti energetici – peraltro in maniera spesso discutibile – che la sostenibilità passa soprattutto attraverso quegli aspetti socio-economici che costantemente vengono ignorati, in primis da quei politici e uomini di chiesa che, retoricamente, si ergono a paladini della famiglia!

Cari banditori d’aste che volete svendere l’Italia, provate dunque a riflettere. Non sto parlando di fantascienza, ma semplicemente di un qualcosa di già testato, che richiede da parte vostra una visione un po’ più allargata di quella che vi consente di guardare solo al vostro orticello!

 

[1] http://www.inu.it/wp-content/uploads/Sole_Parco_Colosseo_25_luglio_2017.pdf

[2] http://mobilitiamoroma.it/

[3] https://archiwatch.files.wordpress.com/2014/12/mazzola-trasporto-pubblico.pdf

[4] cfr. http://www.comune.roma.it/PCR/resources/cms/documents/SCHEDA_TPL_ROMA.pdf

[5] http://www.movimento5stelle.it/listeciviche/forum/2013/10/svendere-o-investire-e-perche.html

[6] Per precisare di ciò che si intende per “convenzione”, cito la chiarissima spiegazione che ci dà Italo Insolera in Roma – Immagini e realtà dal X al XX secolo, Laterza Edizioni, Roma-Bari 1980, pag. 367: «la convenzione è un contratto tra il proprietario di un terreno e il Comune. Il proprietario si impegna a cedere al Comune ad un prezzo modesto le superfici stradali (generalmente secondo un tracciato fatto dal proprietario stesso) quindi ridotte al minimo indispensabile per la sola circolazione [questo commento è mio] e raramente qualche area per i pubblici servizi (scuola, mercato, ecc.); il Comune si impegna a costruire le fogne, l’acquedotto, le condutture del gas, i marciapiedi, il selciato, la pubblica illuminazione, le fontanelle e i tombini per l’innaffiamento e si impegna alla manutenzione permanente di tutto ciò (oppure il Comune incarica, sempre a proprie spese – abbondantemente anticipate – lo stesso proprietario di realizzare queste opere). Il Comune infine autorizza la costruzione dei lotti risultanti dal tracciamento delle vie, secondo il progetto presentato dal proprietario, raramente con qualche modificazione».

[7] Italo Insolera in Roma – Immagini e realtà dal X al XX secolo, Laterza Edizioni, Roma-Bari 1980, pag.32

[8] B. Regni, M. Sennato, “l’ex quartiere operaio di Testaccio”, Capitolium, n°10, 1973

[9] Questione ampiamente dibattuta al IV congresso internazionale d’assistenza pubblica tenuto a Milano nel 1908;

[10] D. Orano, Come vive il popolo a Roma, Pescara 1909;

[11] Giovanni Faldella, Roma Borghese, Roma 1882

[12] Istituto Romano dei Beni Stabili, La casa moderna nell’opera dell’Istituto Romano dei Beni Stabili, Intr. Di E. Talamo, Roma, 1910;

[13] Simona Lunadei, “Testaccio un Quartiere popolare”, Franco Angeli Editore, Milano, 1992;

[14] Domenico Orano, Case non Baracche, Relazione per conto del Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio, Roma, 1910;

[15] Mario Sanfilippo, “Il sindaco venuto da Londra, in La risorsa Roma. Acea 1909-1989. Un’azienda tra passato e futuro”, De Cristofaro editore, Roma 1989

[16] Simona Lunadei, “Testaccio un Quartiere popolare”, op. cit;

[17] Presieduto dal Ministro dell’Industria, Commercio e Lavoro ed era costituito dai rappresentanti ministeriali, del Comune, della Cassa Depositi e Prestiti, dell’Unione Edilizia Nazionale, dell’Istituto Case Popolari, dell’Istituto Cooperativo per le Case degli Impiegati dello Stato e da un gruppo di consulenti.

[18] Archivio della Camera dei Deputati, Discussioni, 1° sessione, 1° tornata del 4 agosto 1921, pag. 1247.

[19] R.D.L. 24 settembre 1923, n°2022.

12 pensieri su “Privatizzazioni deleterie e municipalizzazioni virtuose

  1. Chiamale strane quelle assunzioni in ATAC ! La cubista per tutte.
    Poi ci sarebbe da vedere la questione delle Partecipate, tutte.
    Se ci vogliamo divertire ancora un po’ andiamo ad osservare ” forma e funzioni ” di : Agenzia per la Mobilità, Risorse per Roma.

  2. L’oggetto della tua critica in effetti è il frutto del dominio del “moderatismo”, che poi tutto è, fuorché moderato !

  3. Non credo di soffrire di paranoia, ma è da molto tempo che credo che qualcuno vuole scoraggiare l’uso del mezzo pubblico a Roma. Il garage di Via Giulia è emblematico di dove vuol arrivare il Comune: facilitazioni per l’automobilista (anche con la promessa falsa di un giardino barocco sopra i bolidi [e sopra le stalle antiche romane]). Ormai possiamo solamente contemplare il muro del pianto che protegge le auto ma non la Via Giulia né la Moretta.

  4. E chissà se il biglietto lo vendono quelli che possiedono i terreni, oltre le Banche e chiunque faccia i prezzi ! Vallasape’.

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