Ci sono cose per le quali non si vorrebbe mai scrivere, perché si corre il rischio di litigare anche con degli amici i quali, a causa di una visione drammaticamente ideologica dell’architettura e del restauro, preferiscono accusare chi prenda le difese di un palazzo storico di essere un “passatista inconcludente”, piuttosto che rivedere le proprie posizioni.
Ma così è sempre stato, almeno da quando la rivalità, le invidie, l’autocompiacimento e l’ideologia degli architetti influenzano il loro operato!
Oggi, dopo la sterile discussione con un collega, amico d infanzia e di studi, mi sento più che mai vicino alle parole di Giulio Magni quando, nel 1885, scrivendo a Raimondo D’Aronco – anch’egli costretto a lasciare l’Italia – aveva avuto modo di esprimere la necessità, per l’architettura del suo tempo, di liberarsi delle catene impostegli dall’Accademia: «[…] colui che deve lavorare si trova nel bivio difficilissimo se cioè fare come la ragione lo guida o come il generalizzato sentimento gli impone […] affrontare l’impopolarità è certo un eroismo e chi si sente forte nella battaglia da combattere, scenda in campo con quel coraggio che dà la sicurezza della vittoria. E noi giovani che coltiviamo questo ideale nella nostra mente, dobbiamo difenderlo e sostenerlo con tutte le nostre forze, studiando alacremente con la ferrea volontà di riuscire!» …
Oggi quell’Accademia non è più quella classicista Beaux Arts dell’epoca di Magni, che almeno una cultura e un senso estetico ancora manteneva, ma quella ancora più dittatoriale, ignorante e deleteria dei fondamentalisti dello zeitgeist i quali, non avendo la capacità di confrontarsi con l’esistente, preferiscono offenderlo, demolirlo e, come nel caso in oggetto, ritenerlo “vecchio”, ergo “sacrificabile! Costoro, d’altro canto, non lo fanno per ignoranza o per cattiveria, lo fanno semplicemente perché così gli è stato insegnato/imposto sui banchi universitari. Essi sono in totale buona fede, perché vittime di un lavaggio del cervello, talmente profondo e consolidato, che gli impedisce di accettare la realtà … Ci troviamo davanti ad una sorta di moderna versione del “mito della caverna” di Platone[1]
Accanto a questa ormai settantennale schiera di architetti “lobotomizzati” in nome di una visione “modernista” dell’architettura, che è cosa ben diversa da una visione “moderna” della stessa, vi sono poi gli “intellettualoidi radical-chic” che fingono di apprezzare le stravaganze e gli abomini che quell’élite colta di architetti gli propone … Costoro, sottovoce e mai in presenza di persone che non conoscono, spesso e volentieri esprimono il proprio dissenso per l’operato di architetti e pianificatori, ironizzano sulle loro idee e tendenze. Ma nel dibattito pubblico, per non sembrare ignoranti, sfoderano la loro necessità di appartenenza alla cerchia della gente “colta”, e fingono di apprezzare opere insulse per le quali è magari stato speso molto denaro pubblico, provocandogli “segretamente” un attacco di bile!
Questa ipocrisia, però, non colpisce solo la gente comune – le cui scelte non causerebbero danno a nessun altro che se stesso – ma colpisce soprattutto la classe politica, perennemente alla ricerca della platealità. Una classe politica che non si pone problemi nel commissionare opere faraoniche (quasi sempre inutili) che, nello sfregiare le città, lasciano però la possibilità per certi sindaci di poter rivendicare di essere stati loro a portare “fama” alla città e, soprattutto, a se stessi … i casi del Museo dell’Ara Pacis di Richard Meier imposto sindaco/despota Francesco Rutelli a Roma, e quello dell’altro sindaco/despota Massimo Federici a La Spezia, che ha portato alla devastazione di Piazza Verdi fare spazio alla ridicola opera di Daniel Buren, sono ferite ormai putrescenti e mai più sanabili. Ma non facciamoci illusioni che le cose possano cambiare da un giorno all’altro, gli esseri umani, specie nell’attuale “società dello spettacolo”, sono troppo narcisisti per poter trovare il coraggio di ribellarsi al sistema e fare come il ragionier Fantozzi davanti all’ennesima proiezione della Corazzata Potëmkin del grande maestro Sergej Michajlovič Ėjzenštejn.
A beneficio di chi, in qualità di amministratore pubblico, potrebbe prendere delle decisioni errate, perché influenzate da chi possa agire in nome di una ideologia, ritengo utile parafrasare le “Conversations sur l’Architecture” di Eugène Viollet-Le-Duc[2] a suo tempo preoccupato da come l’Academie des Beaux-Arts stesse mettendo a repentaglio il patrimonio storico francese.
L’influenza esclusiva che può assumere una congregazione irresponsabile nei riguardi di un potere esecutivo responsabile è talmente grande da rischiare di non poter essere controllata: cosa può opporre un’amministrazione non competente all’opinione di un’università o un ordine professionale che lo Stato stesso (poiché è lo Stato che li sostiene) considera del tutto competente? Come ammettere che un’amministrazione che non è artista, si accinga ad assumersi le responsabilità di affidare, per esempio, la costruzione di un monumento pubblico a un uomo che rifiuta un corpo che si ritiene si recluti nell’élite degli artisti?
Per i grandi incarichi l’amministrazione trova più semplice, e meno compromettente, ripararsi dietro l’opinione dell’organo colto (commissione giudicatrice decisa dall’Ordine degli Architetti o da chicchessia che, comunque, sarà composta come al solito dagli adepti della “setta” e mai dalla gente comune che dovrà vivere ciò che le si costruisce), che però non è responsabile e non è minimamente tenuto, nei confronti del pubblico, a rendere conto dei reali motivi che lo fanno agire, e ben si guarda dal rivelarlo, se lo farà argomenterà le sue decisioni con le tipiche frasi arcane miranti a far sentire il popolo come una massa di sudditi ignoranti per i quali lo Stato “buono” produce. Si capisce che in tali condizioni, in un’amministrazione che “non se ne intende” di speciali questioni d’arte, gli affari della lobby vadano alla grande. Così queste amministrazioni si trovano ben presto completamente alla mercé dei capi della congregazione e circondate dai suoi aderenti, impiegati ad ogni livello. Questi ultimi divengono tanto più numerosi e sottomessi allo spirito del corpo, quanto più sentono che la sua influenza si accresce e che il suo potere si rinsalda in tutti i servizi dei lavori pubblici. Poiché tali servizi ormai intendono esprimere una sola opinione su tutto, e visto che tutti gli “oppositori del regime” sono stati costretti a tirarsi fuori dalla mischia, essi credono in perfetta buona fede di essere nel giusto … fino al momento in cui, per un caso fortuito, si assiste ad un brusco risveglio. È solo a questo punto che questa responsabilità – che l’amministrazione credeva potesse accollare al corpo protetto – viene invece a ricadergli addosso come un macigno, a questo punto il corpo irresponsabile se ne lava le mani. Così facendo, si suppone, l’istituzione statale dovrebbe divenire per lo Stato imbarazzante, tuttavia inizia un tira e molla di scaricabarile finché, col tempo, ci si dimentica e si ricomincia come se niente fosse stato!
La forma dittatoriale silente che caratterizza l’ambiente dell’Architettura di oggi è assolutamente inimmaginabile alla gente che vive – o sopravvive – nelle città: gli architetti e gli studenti di Architettura si trovano in una situazione particolare a dir poco vergognosa: ripudiare le proprie idee, qualora tali opinioni e tali idee non siano ammesse dal corpo protetto dallo Stato, o essere condannati a una specie di ostracismo se mantengono le loro idee e le loro opinioni personali.
È esattamente come la già citata riflessione di Giulio Magni!
Si rifletta sul fatto che un qualsiasi corpo (in questo caso gli Ordini Professionali) sottomesso a una dottrina, (in questo caso la Teoria Modernista imperversante nelle Facoltà di Architettura e di Ingegneria), che dipende dallo Stato tramite un legame qualsiasi, tenderà sempre a servirsi fatalmente dello Stato per far trionfare la propria dottrina! Quando a questo si aggiungono le riviste specializzate – su cui ovviamente scrivono i grandi luminari dell’Architettura e i loro emuli – che bombardano in maniera monotona e dittatoriale i lettori con architetture astruse – la frittata è fatta.
Chi si ribella a questo circolo vergognoso viene immediatamente annientato da chi comanda abusando della sua posizione protetta e privilegiata. Gli studenti, e/o i giovani architetti che provano ad emanciparsi imparano subito, a loro spese, cosa costi. Se non seguono la strada uniforme tracciata dal cameratismo, si trovano le porte chiuse; se non cozzano contro un’ostilità dichiarata, vengono condannati dalla cospirazione del silenzio: se lo studente prova a divergere dall’idea del docente non passa, o passa a stento, e dopo lunghe sofferenze, l’esame progettuale; se un giovane architetto ha la fortuna di realizzare, o semplicemente progettare un intervento tradizionale, nessuna rivista lo prende in considerazione.
Ma cosa ha prodotto questo sistema? Ha prodotto le nostre immonde periferie spersonalizzanti e criminogene, ha prodotto architetture che hanno rotto il delicatissimo rapporto con la storia minando le nostre radici e la nostra identità, ergo quell’innata “voglia di appartenenza” che da sempre ha inorgoglito i popoli, facendoli combattere in nome del proprio campanile e della propria nazione.
Non è un caso se le guerre, da sempre, lascino segni così profondi da far sì che nulla e nessuno possa farle dimenticare. Sin dall’antichità i signori della guerra si sono serviti di uomini (anche se è difficile poter adoperare questa definizione), disposti a far violenza sulle persone e le cose, affinché l’offesa e il terrore potesse rimanere a perpetua memoria del loro passaggio e della sconfitta.
Come ricordava il compianto prof. Paolo Marconi nell’introduzione al mio libro “La Città Sostenibile è Possibile” infatti, in occasione della 2^ Guerra Mondiale «Il trauma ha soprattutto riguardato il modo di concepire l’oggetto d’Architettura in quanto coerente linguisticamente col suo intorno: il Paesaggio, il Borgo, la Città e destinato dunque a fornire agli uomini un ambiente[3] entro il quale vivere e svilupparsi civilmente. Un ambiente la cui eventuale distruzione traumatica provocherebbe gravi disagi, producendo stati maniaco-depressivi tali da destabilizzare le popolazioni». Venuti meno quei simboli, venuto meno quell’ambiente nel quale si è cresciuti e immedesimati, e che si era sempre creduto inviolabile, vengono meno tutte quelle certezze, quel senso di appartenenza, che dà la forza di combattere in nome di un qualcosa che travalica le identità singole in nome di una identità collettiva.
Ma se questa è la strategia dei “signori” della guerra cosa muove, in tempi di pace, certe persone a decidere di promuovere (e difendere) la demolizione di elementi architettonici (nobili o vernacolari che siano) nei quali un popolo si riconosce ed immedesima?
Come è possibile che persone certi professionisti non comprendano che una città sia un organo complesso, fatto di edifici nobili ed edilizia minuta, dove i rapporti tra le parti costituiscono quel valore aggiunto che le renda uniche e non ripetibili?
Nel lontano 1923 un altro Marconi, Plinio, padre del citato Paolo, scrisse: «[…] più che del dettaglio di ciascun edificio in sé, conta l’architettura d’insieme delle strade, assai varie e pittoresche nel casuale comporsi di tanti elementi disparati – crocicchi, androni, sottopassaggi angusti, l’improvviso alzarsi e scorciare di muraglie, i balconi fioriti, le loggette, le altane»[4]. Una descrizione struggente che, da sola, servirebbe a far comprendere ai detrattori delle cosiddette “case vecchie”, che esse sono l’indispensabile umile cornice al monumento di turno. In quest’ottica, la demolizione di Palazzo Tresca a Barletta costituirebbe una grave mutilazione della cortina edilizia che ospita Palazzo Calò e Palazzo Passero
E allora sarebbe il caso di rispolverare la memoria di chi possa aver dimenticato il contenuto dei corsi di Restauro Architettonico e di Teorie del Restauro del percorso di laurea in Architettura, indirizzo Tutela e Recupero del Patrimonio Storico Architettonico, poiché la cosa potrebbe anche aiutare il sindaco e l’assessora barlettani, chiamati a decidere se agire in nome del buon senso e degli orientamenti internazionali in materia di tutela, oppure con i paraocchi, in nome delle norme vecchie, perché non si è stati in grado – o non si è voluto – rendere esecutivo il nuovo piano … del resto, stando alle dichiarazioni scaricabarile riportate sulla Gazzetta del Mezzogiorno, il nuovo piano avrebbe consentito alla giunta di garantire maggiore tutela agli edifici storici cittadini!
Per evitare di risultare noioso, non starò qui a ripercorrere l’evoluzione delle Teorie del Restauro già affrontata in un precedente articolo[5], però ripeterò i passaggi principali delle varie Carte del Restauro che andrebbero seriamente presi in considerazione per un corretto operato.
La Carta di Atene del 1931
- Tra le varie raccomandazioni sottolineava l’importanza di “uniformare le legislazioni così da non far prevalere l’interesse privato su quello pubblico”;
- Nonostante l’istigazione (non condannabile perché non se ne potevano conoscere gli effetti collaterali a medio-lungo termine) “all’impiego giudizioso di tutte le risorse della tecnica moderna, e più specialmente del cemento armato”, la Carta sottolineava la necessità che “questi mezzi di rinforzo debbano essere dissimulati per non alterare l’aspetto e il carattere dell’edificio da restaurare”.
- Raccomandava “di rispettare, nelle costruzioni degli edifici, il carattere e la fisionomia della città, specialmente in prossimità dei monumenti antichi, per i quali l’ambiente deve essere oggetto di cure particolari […]”.
- Raccomandava una corretta istruzione, affinché “gli educatori volgano ogni cura ad abituare l’infanzia e la giovinezza ad astenersi da ogni atto che possa degradare i monumenti e le inducano ad intendere il significato e ad interessarsi, più in generale, alla protezione delle testimonianze d’ogni civiltà”.
La Carta di Venezia (1964)
- La Carta ricordava che “La nozione di monumento storico comprende tanto la creazione architettonica isolata, quanto l’ambiente urbano o paesistico che costituisca la testimonianza di una civiltà particolare, di un’evoluzione significativa o di un avvenimento storico […]”.
- Che “la conservazione dei monumenti è sempre favorita dalla loro utilizzazione in funzioni utili alla società: una tale destinazione è augurabile, ma non deve alterare la distribuzione e l’aspetto dell’edificio”.
- Che “la conservazione di un monumento implica quella della sua condizione ambientale. Quando sussista un ambiente tradizionale, questo sarà conservato; verrà inoltre messa al bando qualsiasi nuova costruzione, distruzione ed utilizzazione che possa alterare i rapporti di volumi e colori”.
- Che “le aggiunte non possono essere tollerate se non rispettano tutte le parti interessanti dell’edificio, il suo ambiente tradizionale, l’equilibrio del suo complesso ed i rapporti con l’ambiente circostante”.
La Carta Italiana del Restauro (1972)
Nella prefazione a questo documento, si legge un passaggio fondamentale per chi insegni e pratichi la nostra professione, oltre che per gli amministratori delle nostre città e dei nostri Beni Culturali. Il testo dice:
- “Né minori guasti dovevano prospettarsi per le richieste di una malintesa modernità e di una grossolana urbanistica, che nell’accrescimento delle città e col movente del traffico portava proprio a non rispettare quel concetto di ambiente, che, oltrepassando il criterio ristretto del monumento singolo, aveva rappresentato una conquista notevole della Carta del Restauro e delle successive istruzioni. […]”.
Il testo poi specifica che
- “[…] in relazione ai fini delle operazioni di salvaguardia e restauro, è proibita indistintamente […] ogni alterazione delle condizioni accessorie o ambientali nelle quali è arrivata sino al nostro tempo l’opera d’arte, il complesso monumentale o ambientale, il complesso d’arredamento, il giardino, il parco, ecc.;
- “Ai fini dell’individuazione dei Centri Storici, vanno presi in considerazione non solo i vecchi “centri” urbani tradizionalmente intesi […] Il carattere storico va riferito all’interesse che detti insediamenti presentano quali testimonianze di civiltà del passato e quali documenti di cultura urbana, anche indipendentemente dall’intrinseco pregio artistico o formale o dal loro particolare aspetto ambientale, che ne possono arricchire o esaltare ulteriormente il valore, in quanto non solo l’architettura, ma anche la struttura urbanistica possiede, di per se stessa, significato e valore. […] Il restauro non va, pertanto, limitato ad operazioni intese a conservare solo i caratteri formali di singole architetture o di singoli ambienti, ma esteso alla sostanziale conservazione delle caratteristiche d’insieme dell’intero organismo urbanistico e di tutti gli elementi che concorrono a definire dette caratteristiche. […]
- Gli elementi edilizi che ne fanno parte vanno conservati non solo nei loro aspetti formali, che ne qualificano l’espressione architettonica o ambientale, ma altresì nei loro caratteri tipologici in quanto espressione di funzioni che hanno caratterizzato nel tempo l’uso degli elementi stessi. […] Su tutto il complesso definito come centro storico si dovrà operare con criteri omogenei”.
La Dichiarazione di Amsterdam (1975)
- La Dichiarazione chiarisce che “il patrimonio comprende non solo edifici isolati di eccezionale valore ed il loro ambiente, ma pure gli insiemi, quartieri di città e villaggi, che offrano un interesse storico o culturale”.
- Nel rispetto della cittadinanza, la Dichiarazione suggerisce inoltre che “i poteri locali devono perfezionare le loro tecniche di consultazione per conoscere il parere dei gruppi interessati ai piani di conservazione e tenerne conto fin dall’elaborazione dei loro progetti. Nel quadro della politica d’informazione del pubblico, essi devono prendere le decisioni alla luce del giorno, usando un linguaggio chiaro ed accessibile a tutti, affinché la popolazione possa conoscere, discutere ed apprezzare i motivi delle decisioni. Dovrebbero essere previsti luoghi d’incontro per l’intesa pubblica. In questo senso dovrebbero diventare una pratica corrente il ricorso alle riunioni pubbliche, alle esposizioni, ai sondaggi d’opinione, ai mass-media ed a tutti gli altri mezzi idonei”.
- “Il patrimonio architettonico europeo non è formato soltanto dai nostri monumenti più importanti, ma anche dagli insiemi degli edifici che costituiscono le nostre città e i nostri villaggi tradizionali nel loro ambiente naturale o costruito. Per molto tempo sono stati tutelati e restaurati soltanto i monumenti più importanti, senza tener conto del loro contesto. Essi però possono perdere gran parte del loro valore se questo loro contesto viene alterato. Inoltre gruppi di edifici, anche in mancanza di episodi architettonici eccezionali, possono presentare qualità ambientali che contribuiscono a dar loro un valore artistico diversificato e articolato. Questi gruppi di edifici debbono essere conservati in quanto tali. Il patrimonio architettonico costituisce una testimonianza della storia e della sua importanza nella vita contemporanea”.
- “Questo patrimonio è in pericolo. È minacciato dall’ignoranza, dal tempo, da ogni forma di degradazione, dall’abbandono. Un certo tipo di urbanistica ne favorisce la distruzione quando le autorità attribuiscono eccessiva attenzione agli interessi economici e alle esigenze della circolazione. La tecnologia contemporanea male applicata degrada le strutture antiche”.
La Carta Internazionale per la Salvaguardia delle Città Storiche (Washington, 1987)
- Nel preambolo alla Carta si legge: “La presente Carta concerne più precisamente le città, grandi o piccole, ed i centri o quartieri storici, con il loro ambiente naturale o costruito, che esprimono, oltre alla loro qualità di documento storico, i valori peculiari di civiltà urbane tradizionali. Ora, questi sono minacciati dal degrado, dalla destrutturazione o meglio, distruzione, sotto l’effetto di un modo di urbanizzazione nato nell’era industriale e che concerne oggi, universalmente, tutte le società.
- Nel testo si specifica che “i valori da preservare sono il carattere storico della città e l’insieme degli elementi materiali e spirituali che ne esprime l’immagine; in particolare:
- la forma urbana definita dalla trama viaria e dalla suddivisione delle aree urbane;
- le relazioni tra i diversi spazi urbani: spazi costruiti, spazi liberi, spazi verdi;
- la forma e l’aspetto degli edifici (interno e esterno), così come sono definiti dalla loro struttura, volume, stile, scala, materiale, colore e decorazione;
- le relazioni della città con il suo ambiente naturale o creato dall’uomo;
- le vocazioni diverse della città acquisite nel corso della sua storia.
Ogni attentato a tali valori comprometterebbe l’autenticità della città storica”.
- Viene inoltre ribadita l’importanza del coinvolgimento della popolazione: “La partecipazione ed il coinvolgimento degli abitanti di tutta la città sono indispensabili al successo della salvaguardia. Essi devono, dunque, essere ricercati in ogni circostanza e favoriti dalla necessaria presa di coscienza di tutte le generazioni. Non bisogna mai dimenticare che la salvaguardia delle città e dei quartieri storici concerne in primo luogo i loro abitanti”.
- Inoltre, contro ogni ideologia, viene chiarito che “Gli interventi su un quartiere o una città storica devono essere condotti con prudenza, metodo e rigore, evitando ogni dogmatismo, ma tenendo in considerazione i problemi specifici a ciascun caso particolare”.
- Infine la Carta ribadisce che “Il piano di salvaguardia […] deve ricevere l’adesione degli abitanti”.
La Carta di Cracovia 2000
- La Carta, pur ribadendo il “divieto della ricostruzione di intere parti “in stile”, chiarisce anche che “Le ricostruzioni di parti limitate aventi un’importanza architettonica, possono essere accettate a condizione che siano basate su una precisa ed indiscutibile documentazione” e che “La ricostruzione di un intero edificio, distrutto per cause belliche o naturali, è ammissibile solo in presenza di eccezionali motivazioni di ordine sociale o culturale, attinenti l’identità di una intera collettività”.
- Infine, la Carta chiarisce che “Le città ed i villaggi storici, nel loro contesto territoriale, rappresentano una parte essenziale del nostro patrimonio universale, e devono essere visti nell’insieme di strutture, spazi e attività umane, normalmente in un processo di continua evoluzione e cambiamento […]. Gli edifici nelle aree storiche possono anche non avere un elevato valore architettonico in sé stessi, ma devono essere salvaguardati per la loro unità organica, per le loro connotazioni dimensionali, costruttive, spaziali, decorative e cromatiche che li caratterizzano come parti connettive, insostituibili nell’unità organica costituita dalla città”.
Ma c’è di più!
Ci sono infatti le novità apportate al Codice dei Beni Culturali sulla presunzione di vincolo[6]: tra le novità del Codice degli Appalti (Dlgs 50/2016) è compresa una misura che riporta a 50 anni la soglia per considerare vincolato un bene immobile pubblico (anche in assenza di puntuale provvedimento di vincolo).
Se questo riguarda i soli edifici pubblici, per quelli privati procedura deve essere avviata dal soprintendente.
La norma chiarisce che gli immobili di proprietà privata sono considerati beni culturali quando interviene un espresso provvedimento di vincolo. Mentre fanno eccezione quelli di proprietà di soggetti pubblici privatizzati, opera di autore non più vivente e realizzati da oltre 70, ovvero 50 anni (si veda sopra), per i quali vale la presunzione di culturalità.
In questo caso, preso atto degli orientamenti delle Carte del Restauro, e preso atto del fatto che Palazzo Tresca è una indispensabile presenza per il confinante Palazzo Calò – opera di uno dei maggiori esponenti dell’architettura del primo Novecento pugliese, Arturo Boccassini – esso va considerato come un edificio di valenza culturale e, come tale vincolato.
Credo quindi che sia giunto il momento per il soprintendente di esprimersi su una situazione che, probabilmente, non conosceva e che va considerata come un importantissimo precedente per tutto l’edificato storico del nostro Paese.
[1] http://www.skuola.net/filosofia-antica/plato-mito-caverna.html
[2] Per la traduzione italiana: Conversazioni sull’Architettura – Edizioni Jaca Book S.p.A. op. cit.
[3] «Lo spazio circostante considerato con tutte o con la maggior parte delle sue caratteristiche … Complesso di condizioni sociali, culturali e morali nel quale una persona si trova, si forma, si definisce …» dal VOCABOLARIO Devoto Oli, 1987
[4] Plinio Marconi, saggio intitolato L’Architettura rustica nell’Isola di Capri, in “Le Madie”, pubblicazione mensile d’Arti Paesane, n°2, Dicembre 1923, pag. 22
[5] http://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2017/07/13/cosa-spinge-le-soprintendenze-a-consentire-e-promuovere-il-massacro-del-nostro-patrimonio-culturale/
[6] http://blogs.dlapiper.com/regulatory-ita/2016/10/24/edifici-pubblici-vincolati-gli-immobili-over-70/
3 pensieri su “Palazzo Tresca a Barletta … riflessioni (tristi) e suggerimenti per l’istituzione del vincolo”