Il caso del multipiano di Santa Fe dimostra che, non necessariamente, un’autorimessa debba essere una schifezza!
Di ritorno dal 54° Convegno dell’International Making Cities Livable tenutosi a Santa Fe, ho pensato potesse tornare utile condividere con i lettori una piacevole “scoperta” che ho avuto modo di fare nella bella città del New Mexico.
Santa Fe, nell’immaginario comune, rappresenta uno dei pochi esempi sopravvissuti dell’architettura figlia della fusione tra la tradizione precolombiana e quella ispanica. Tuttavia, quello che in pochi (almeno al di fuori degli USA) sanno, è che l’architettura di Santa Fe sia il risultato di quella splendida ricerca “regionalista” che caratterizzò l’intero pianeta dalla fine dell’Ottocento ai primi del Novecento … producendo il meglio di sé fino all’avvento della “pialla” dell’International Style.
Santa Fe deve la sua notorietà e bellezza all’opera dell’architetto Isaac Hamilton Rapp (1854-1933), conosciuto negli States come il creatore del cosiddetto “Santa Fe style“, conosciuto anche come “Pueblo Revival Style” o, più semplicemente, “Pueblo Style”.
Questo “stile” architettonico, è quello che definisce inconfondibilmente il carattere regionale degli Stati Uniti del Sud-Ovest, traendo ispirazione dai Pueblos e dalle missioni spagnole del Nuovo Messico.
Lo stile “Pueblo”, raggiunse la sua massima popolarità negli anni ’20 – ’30 e, grazie ad una maggiore libertà di pensiero rispetto al presunto “mondo colto” – quello infestato dai censori che teorizzarono e tutt’oggi sostengono la teoria del “falso storico” – trova ancora oggi larga utilizzazione nei per nuovi edifici … con grande beneficio per l’artigianato e l’economia locale.
L’architettura in stile Pueblo, mantiene viva la tradizione del mattone crudo, qui definito Pueblo adobe[1], sebbene in alcuni edifici vengano usati – benché nascosti sotto l’intonaco imitante la terra cruda – altri materiali come il mattone o il calcestruzzo. Laddove non venga utilizzato l’adobe, vengono comunque impiegati angoli arrotondati, parapetti irregolari e muri spessi e massicci che emulano il modello originale. Le pareti sono solitamente stuccate e tinteggiate con colori e tonalità che imitano l’aspetto del modello originario, rivestito in terra. Gli edifici multipiano traggono partito dalle massicce strutture a gradoni di Taos Pueblo.
I tetti, dato il clima, risultano rigorosamente piatti. Altro elemento caratteristico dello stile Pueblo Revival – riscontrabile anche nel modello originario – è dato dalla sporgenza, all’esterno delle facciate, delle travi dei solai o di semplici monconi di travi in legno, la cui presenza è meramente “estetica” e non strutturale! … già, l’estetica!!!
Ulteriori elementi caratteristici di questa architettura sono i corbels, delle mensole – spesso ricurve – a forma di fascio stilizzato, nonché le latillas, delle “incannucciate” o delle semplici fasce di legno, poste al di sopra delle vigas (travi in legno), al fine di creare il corretto allettamento dell’argilla impermeabile delle coperture … un qualcosa che, a noi italiani, può ricordare l’opus signinum (o cocciopesto) degli antichi romani.
Inutile sottolineare le altissime prestazioni termo-igrometriche e la velocità di esecuzione di certe strutture … molto più che sostenibili!
Utilissimo, però, sottolineare ancora una volta il fatto che, grazie ad una maggiore libertà di pensiero, e grazie ad una volontà condivisa di rivendicare l’identità locale e rinforzare il senso di appartenenza, da queste parti nessuno si è mai sognato di condannare i progettisti contemporanei come “falsificatori della storia” … e, con buona pace dei nostri ottusi censori, l’economia e il turismo locale, traggono grandi benefici da questa libertà intellettuale!
Da questa “campanilistica” volontà di rivendicare, attraverso l’architettura, l’identità collettiva di una popolazione, è scaturita una ricerca che ha portato a concepire edifici, del tutto contemporanei e funzionali, perfettamente in armonia col resto della città!
Durante il mio soggiorno a Santa Fe, sono stato ospite dell’Hotel La Fonda[2] – lo stesso presso cui si è tenuto il convegno dell’IMCL.
L’hotel rappresenta uno splendido esempio di edificio in “stile Pueblo”, realizzato nel 1922 da Mary Colter (1869 – 1958) e John Gaw Meem (1894 – 1983). Negli anni, l’hotel è stato oggetto di diversi interventi di “ammodernamento” e ampliamento che, però, hanno sempre visto i progettisti incaricati agire nel massimo rispetto del carattere dell’edificio originario, piuttosto che del proprio ego … come nel caso del felicissimo intervento dell’architetto Barbara Felix, terminato nel 2009, per realizzare il ristorante “La Plazuela”[3] nella corte interna.
Ma la cosa che più mi ha colpito, non perché possa essere l’edificio più bello che si possa immaginare, ma perché rappresenta un modo assolutamente straordinario di realizzare un edificio “funzionale”, senza dimenticare l’importantissima “funzione estetica” dello stesso, è stato il “La Fonda Parking”, un garage di tre livelli – di cui due fuori terra – realizzato tra il 1983 e l’85, ampliando il lotto dell’hotel, fino alla piazza antistante la Cattedrale.
L’autorimessa, per la quale non sono stato in grado di risalire al nome del progettista, è stata realizzata nel più rigoroso rispetto del carattere architettonico locale, integrandosi alla perfezione con le preesistenze.
La struttura multipiano trae ispirazione dai tipici terrazzamenti di Taos Pueblo, tuttavia le aperture e le griglie protettive delle finestrature rispondono perfettamente alle esigenze normative e tipologiche richieste da un’autorimessa.
A differenza del tipico impatto drammatico sull’ambiente cui dobbiamo confrontarci quando si realizzano certi interventi, passeggiando lungo l’esterno di questa struttura … di notevoli dimensioni, si prova un piacevolissima sensazione, quasi bucolica! Le murature in “finto adobe”, tra un’apertura e l’altra, presentano comode sedute realizzate nella stessa muratura del sotto finestra e delle fioriere che ospitano piante ed essenze locali.
Ciliegina sulla torta è ciò che accade sulla copertura: l’ultimo piano della struttura infatti, ospita l’ottimo ristorante “La Terrazza” che, come suggerisce il nome, oltre alla torretta svettante sull’edificato, possiede una splendida terrazza giardino che, grazie ai volumi realizzati in copertura, crea una sensazione che rimanda alla passeggiata lungo la via Biberatica dei Mercati di Traiano a Roma – rialzata anch’essa rispetto alla strada principale sottostante e fiancheggiata da botteghe e Termopolia – questa strada pedonale sospesa, si presenta infatti come una piacevolissima passeggiata fiancheggiata da coloratissime fioriere rivestite in maioliche locali, animata da tavoli all’aperto e lampioncini, che invitano a trascorrere la serata in un ambiente estremamente accogliente tale che, mai e poi mai, ci si potrebbe immaginare di trovarsi sulla copertura di un triste parcheggio multipiano!
Questa splendida terrazza giardino, fiancheggiata da piccoli volumi a servizio dell’hotel e del ristorante, dimostra come sia possibile realizzare un’autorimessa che, piuttosto che sfregiare il contesto in cui sorge e renderlo off-limits, può addirittura contribuire a miglioralo e rivitalizzarlo.
Ma c’è ancora qualcosa che questo progetto, con la sua articolata “copertura” ci insegna: se non ci si fossilizzasse sul discorso delle cubature realizzabili … come avviene nei nostri uffici tecnici, e se non si abusasse del termine “cementificazione” ogni qualvolta si parli di realizzare un qualsivoglia edificio, potremmo comprendere che l’aumento volumetrico, se rispettoso dei luoghi, non solo potrebbe favorire l’integrazione di certi edifici – generalmente di uno squallore e anonimia unici – ma addirittura potrebbe contribuire a creare spazi assolutamente desiderabili i quali, grazie alla costante presenza di fruitori e gestori, garantirebbero quella famosa “sorveglianza spontanea”, così ben descritta sin dal 1961 da Jane Jacobs in “Death and Life of Great American Cities”[4], in grado di portare sicurezza anche in un “non luogo” come un parcheggio!
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Adobe_(mattone)
[2] https://www.lafondasantafe.com/about/history
[3] http://bjfelix.com/projects/la-fonda-on-the-plaza/#1
[4] https://www.buurtwijs.nl/sites/default/files/buurtwijs/bestanden/jane_jacobs_the_death_and_life_of_great_american.pdf
Ottimo Ettore condivido pienamente !!!
grazie Rodolfo!!
Perchè non parcheggiare nel sottosuolo?
Per esperienza diretta di molti anni di professione (pur ritenendo che si possa ispirarci al passato anche adottando forme architettoniche attuali) conosco benissimo il terrorismo ideologico dei demonizzatori del “falso storico” rimpiattati nelle commissioni edilizie e in tutto gli altri carrozzoni inventati nell’ultimo secolo al fine di imporre la vulgata dominante ai progettisti e ai committenti, e da sempre considero stupidi e dannosi i parametri numerici (indici, rapporti, altezze, volumi e via dicendo) che governano l’urbanistica attuale e che impediscono una progettazione che nasca dal talento (se c’è) dell’architetto e non dalle elucubrazioni paranoiche dei pianificatori. I quali parametri, però, non hanno impedito la nascita e il proliferare di un’edilizia schifosa, in Italia, e in pari tempo di consentire ai “grandi nomi” di realizzare i più vergognosi esempi di quel disprezzo per il bello che costituisce la prima e fondamentale della crisi di rigetto che la gente comune prova verso l’architettura contemporanea. Saluti
Grazie, belle fotografie