Il tema della conferenza “The Art of Architecture: Hand Drawing and Design” tenutosi lo scorso anno presso la University of Notre Dame School of Architecture di South Bend, Indiana, si chiedeva: “quanto è importante disegnare a mano per il futuro dell’architettura?”
Personalmente mi sarebbe piaciuto rispondere semplicemente: “al 100%!” … Tuttavia, una risposta semplicistica del genere, sarebbe risultata ridicola e, giustamente inaccettabile da parte di chi ritenga che, nell’era del computer, il disegno a mano risulti anacronistico.
Del resto, un semplice sguardo alle riviste e / o alle mostre di architettura in giro per il mondo, sembra confermare che non risulti più necessario essere in grado di disegnare correttamente per poter costruire qualcosa e venir considerati una archistar!
Ebbene, nel 2010 venni invitato a prendere parte ad una prestigiosa tavola rotonda internazionale organizzata dal R.I.B.A.[1] a Londra: tre architetti sostenitori dell’architettura rispettosa della tradizione, venivano pubblicamente messi al confronto con tre architetti modernisti.
In quell’occasione risultò per me scioccante ascoltare Patrick Shumacher, fondatore della teoria dell’autopoiesis dell’architettura e del “parametricismo[2] ” il quale, parlando della sua personale e devastante chiave di lettura di tutta la storia dell’architettura, concluse il suo discorso con un “messaggio di speranza” – un vero e proprio “messaggio salvifico” – offerto all’architettura dal parametricismo!
Schumacher, dopo aver gettato fango sull’architettura di tutti i tempi, chiuse il suo discorso delirante sostenendo che “il Parametricismo diverrà la nuova cultura architettonica egemonica” in grado di risolvere tutte le problematiche architettoniche.
Il paramatricismo in architettura potrebbe semplicisticamente sintetizzarsi così: il computer, grazie all’inserimento di una serie di parametri, disegna al posto dell’architetto!
Tornerò su questa interpretazione più avanti.
Zaha Hadid, di cui Schumacher era associato, con le sue teorie e progettirappresenta una delle archistar contemporanee più influenti. I suoi progetti sono infatti spesso imposti come modelli d’ispirazione in molte facoltà di Architettura, tanto che oggi esistono migliaia di suoi emulatori in giro per il mondo!
Parlando della sua teoria, Schumacher ha affermato:
«L’Autopoiesi dell’Architettura è un tentativo di creare una teoria completa e unificata dell’architettura, che si serve del parametricismo come strumento. L’argomento è che il parametricismo continua l’autopoiesi dell’architettura, che è il sistema autoreferenzialmente chiuso delle comunicazioni costituente l’architettura come un discorso nella società contemporanea»[3].
Nella nostra società moderna, molti autoproclamati intellettuali amano presentare le proprie teorie in maniera fantasiosa e inaccessibile. Questa attitudine consente loro di poter rivendicare di essere l’unica categoria umana provvista della parola e del cervello, ergo l’unica categoria in grado di poter decidere il destino degli altri! È una sorta di maniera dittatoriale di presentare la massima cartesiana “cogito ergo sum”.
Qual è la ragione per cui dovremmo accettare questa imposizione? Soprattutto, trattandosi del nostro ambiente naturale e costruito, come possiamo accettare di essere trattati (o minacciati) in questo modo? Non pensate che sia giunto il momento per ribellarsi a questo modo arrogante di fare? Perché non iniziamo a farci alcune domande sulle certezze assolute di questi guru? … Perché non cerchiamo di comprendere il vero significato delle parole che ci vengono presentate in maniera positiva ed accattivante, sebbene abbiano il solo fine di giustificare scelte ideologiche pericolose?
Se facciamo una ricerca sul termine “autopoiesis” [dal Greco αὐτo- (auto-), e ποίησις (poiesis), ovvero “creazione, produzione“] capiamo che «un sistema autopoietico è un sistema che ridefinisce continuamente se stesso sostenendosi e riproducendosi dal proprio interno». Il termine venne introdotto nel 1972 dai biologi cileni Humberto Maturana e Francisco Varela per “definire la chimica di auto-mantenimento delle cellule viventi”.
«L’Autopoiesis venne originariamente presentata come una descrizione del sistema in grado di definire e spiegare la natura dei sistemi viventi. Un esempio canonico di un sistema autopoietico è la cellula biologica. La cellula eucariota, ad esempio, è costituita da vari componenti biochimici, come gli acidi nucleici e le proteine, ed è organizzata in strutture limitate come il nucleo cellulare, vari organi, membrana cellulare e citoscheletro. Queste strutture, basate su un flusso esterno di molecole e di energia, producono i componenti che a loro volta continuano a mantenere la struttura limitata organizzata che dà origine ai componenti stessi (analogamente ad un’onda che si propaga attraverso un mezzo).
Sebbene altri abbiano usato spesso il termine come sinonimo di auto-organizzazione, Maturana stesso affermò che mai avrebbe usato la nozione di auto-organizzazione […] perché operativamente impossibile: se l’organizzazione di una cosa cambia, la cosa cambia”. Inoltre, un sistema autopoietico è autonomo e operativamente chiuso, nel senso che ci sono processi sufficienti all’interno di esso per mantenerlo integro. I sistemi autopoietici sono “strutturalmente accoppiati” con il loro mezzo, incorporati in una dinamica di cambiamenti che possono essere richiamati come accoppiamenti sensoriali-motori. Questa dinamica continua, considerata come una forma rudimentale di conoscenza o cognizione, può osservarsi in tutte le forme vitali.
Nel contesto degli studi verbali, Jerome McGann sostiene che i testi siano “meccanismi autopoietici che operano come sistemi di feedback auto-generanti, che non possono essere separati da coloro che li manipolano e usano”. Citando Maturana e Varela, egli definisce un sistema autopoietico come “uno spazio topologico chiuso, che genera e specifica continuamente la propria organizzazione attraverso il suo funzionamento come sistema di produzione dei propri componenti, cosa che fa con un ricambio infinito dei propri componenti”, arrivando alla conclusione che “i sistemi autopoietici sono ben distinti da quelli allopoietici che, essendo cartesiani, hanno come prodotto del loro funzionamento qualcosa di diverso da se stessi”. Codici e marcatori, afferma McGann, apparentemente allopoietici, sono parti generative del sistema necessarie a mantenere il linguaggio, la stampa e la tecnologia elettronica, per cui sono sistemi autopoietici»[4].
In realtà, ci sono molteplici critiche in relazione all’uso del termine, sia nel suo contesto originario, sia come tentativo di definire e spiegare il vivere e i suoi vari usi estesi, ad esempio applicandolo a sistemi auto-organizzati in generale o sistemi sociali in particolare. I critici hanno sostenuto che il termine non è in grado di definire o spiegare i sistemi viventi e, “a causa del linguaggio estremo di autoreferenzialità adottato senza alcun riferimento esterno, appare come un tentativo di dare la prova all’epistemologia radicale o solipsistica di Maturana, ovvero ciò che Danilo Zolo ha definito una “teologia desolata“. Un esempio è l’affermazione di Maturana e Varela che “non vediamo ciò che non vediamo e ciò che non vediamo non esiste“, oppure che la realtà è un’invenzione degli osservatori. Il modello autopoietico, ha affermato Rod Swenson, è “miracolosamente disaccoppiato dal mondo fisico dai suoi progenitori […] (ergo) fondato su una base solipsistica che vola di fronte al senso comune e alla conoscenza scientifica“.
Tornando quindi al disegno architettonico, se confrontiamo il processo auto-generativo biologico con la produzione architettonica del disegno parametrico – così lontano da qualsiasi aspetto umano – onestamente l’unico possibile riferimento che possiamo considerare è quello delle metastasi del cancro … e probabilmente questo non è il miglior esempio cui ispirarsi!
Ricordando gli scritti di Vitruvio ed Alberti viene quindi da chiedersi: Ma l’architetto non era quell’artista che lavorava in armonia con tutte le altre arti e la natura? Non era il disegno una delle tante discipline che doveva dimostrare di conoscere e gestire con maestria, al fine di poter essere considerato un architetto?
Prima della dipendenza dalla tecnologia e tecnocrazia, gli architetti erano essenzialmente dei grandi artisti! E, quando dico “essere grandi artisti”, intendo l’Arte con la “A” maiuscola, ovvero quella che non necessita di alcuna spiegazione per essere compresa ed apprezzata, diversamente dalla moderna “arte concettuale”.
Molti dei grandi architetti del passato iniziarono la propria carriera come “scalpellini”, (p. es. Palladio e Borromini), o come scultori, (Bernini), oppure come disegnatori e/o pittori, (Vignola), oppure come incisori, come il grande architetto del 20° secolo Armando Brasini, ecc.
L’architettura è un’arte che, servendosi delle attività manuali dell’architetto (disegni e modelli) e di quelle degli artigiani (muratori, scultori, battiferro, falegnami, pittori, stuccatori, ecc.) produce manufatti, ragion per cui l’architettura va considerata una delle “arti meccaniche“!
Certamente l’Architettura necessita di una fase “intellettuale” per esser concepita, ma questo non legittima a considerarla una semplice “arte liberale”, perché una semplice idea non può essere realizzata in assenza dell’indispensabile rappresentazione manuale, necessaria per la sua costruzione.
Le arti, tutte, oggi vivono in una situazione assurda, una condizione supponente secondo la quale, in nome di una cattiva interpretazione del concetto di “libertà”, chiunque si sente legittimato a fare qualsiasi cosa voglia, dimenticando gli effetti collaterali della propria libertà su quella degli altri!
Occorre però riflettere sul fatto che, finché si discute di arti figurative – confinate all’interno di un edificio – questa equivocata interpretazione della parola “libertà” limita i suoi effetti collaterali all’interno dell’ambiente dove certi manufatti sono esposti. Tuttavia, quando trattiamo di architettura, specie di architettura all’interno di un contesto urbano, non possiamo permetterci di ignorare gli effetti sociali, psicologici, ambientali, economici ecc. che un manufatto architettonico può avere sulla gente! … Come infatti ebbe ad affermare Jože Plečnik: «L’arte è in grado di portare un contributo determinante alla nascita di un mondo migliore» … e noi potremmo aggiungere “o peggiore!”.
La descrizione dell’architetto lasciataci da Plečnik rappresenta probabilmente l’argomento di partenza per poter riconsiderare il ruolo del progettista:
«L’architetto, al suo più alto grado, ha il compito di attestare il ben-fondato. Questo vuol dire che, al proprio livello, l’architetto deve imporre a se stesso il compito di presentarsi come lo spirito che dà fondamento al bene, perché il bene e il bello si co-destinano: in vista di questo progetto, di cui l’architetto è l’elemento ordinatore, deve saper fare cooperare l’insieme più ampio possibile delle attività artigianali. La missione architettonica – ma anche armonica – dell’architetto consiste nel mantenere la dignità operativa di tutti gli stati socio-corporativi che partecipano all’atto di costruire e che sono minacciati dall’industria.
Arti e Tecniche si fondono una nell’altra solo quando l’architetto ne assicura la vicinanza e l’articolazione; la tradizione dell’artigianato e delle corporazioni – fabbri, intagliatori in pietra, incisori, ceramisti, stuccatori, carpentieri, parquettisti – può mantenersi quindi solo all’interno dell’armonia complessa e diversificata dell’opera architettonica, nel rifiuto della modernità rappresentata dal “principio dell’economia”, distruttore dell’arte nella sua stessa essenza.
L’opera architettonica deve essere espressione di questa completezza risolta. Interamente disegnata, formata, costruita operata, perfino nelle parti non visibili dell’edificio, un microcosmo in cui sono accolti e dotati di forma tutti i materiali che l’universo può offrire»[5].
Se questo è vero, come lo è, abbiamo la necessità di riaffermare l’approccio umano all’architettura, il che comporta anche un approccio manuale alla progettazione. Questo non significa che risulti necessario vietare l’uso del CAD, ma semplicemente che dobbiamo usarlo – come Plinio il Vecchio affermava nella sua Naturalis Historia – cum grano salis … il che vuol dire con buon senso e scetticismo!
Il computer nella progettazione è uno strumento eccellente, purché usato come una matita o penna … vale a dire se siamo ancora noi progettisti ad inventare e controllare le forme, piuttosto che adottare sistemi preimpostati dal software. Diversamente, se diveniamo dipendenti dalle librerie/modelli prestabiliti del software, perdiamo ogni relazione con le arti meccaniche e liberali, svilendo la nostra professione al mero assemblaggio di forme prefabbricate prive di anima. Il riverbero di questo approccio, sia sulle città che sugli individui, è drammatico. La progettazione di edifici decontestualizzati, generati da un computer e ripetibili ovunque, finisce per avere delle conseguenze sul carattere delle città e delle persone.
I luoghi necessitano il rispetto del genius loci, la gente necessita di identificarsi con i luoghi in cui vive, mentre la popolazione necessita del rispetto delle proprie identità e beni comuni! La produzione di luoghi spersonalizzanti ha delle conseguenze sociali e antropologiche immense, che hanno una ricaduta drammatica sulle comunità.
Tre anni fa, in qualità di docente della University of Notre Dame School of Architecture, ho avuto la fortuna di ascoltare l’ultimo discorso tenuto da Michael Graves presso l’American Academy in Rome. Devo chiarire che non sono mai stato un grande estimatore della sua opera, questo però non mi ha impedito di apprezzare profondamente il suo splendido discorso, un discorso che ritengo uno dei più grandi testamenti pedagogici lasciato da un architetto a degli studenti di architettura.
Graves, ripercorrendo la sua vita, nel descrivere il suo background culturale di studente di architettura – in una grande lezione di modestia e autocritica – disse:
«Purtroppo i professori della mia generazione erano Le Corbusier, Gropius e Mies Van-der-Rohe, i quali ci proibivano di studiare la storia dell’architettura! Questo significa che, quando vinsi il premio dell’American Academy e venni a Roma, nel vedere per la prima volta le sue bellezze, compresi di essere totalmente analfabeta!
Ero assolutamente sopraffatto da tutte le bellezze mi circondavano, ma non ero a conoscenza di chi ne fossero gli artefici, né quale fosse la loro età o il loro stile, tuttavia ero estasiato da tutto questo e desideravo saperne di più. Come ho detto, però, non ero preparato a sapere quali libri da leggere e dove cercare … grazie a Dio, però, possedevo uno strumento unico: l’abilità di disegnare!
Grazie alla mia abilità nel disegno, in quei mesi trascorsi a Roma ho imparato molto di più di quello che avevo imparato da studente di architettura … e tutto ciò che ho fatto nella mia vita lo devo esclusivamente a quell’esperienza».
Quello di Michael Graves non rappresenta un caso isolato in cui un grande architetto ammetta di aver tratto le proprie conoscenze dalla capacità di disegnare e dall’amore per la storia dell’architettura.
Il grande – e bistrattato – architetto romano Armando Brasini infatti, nella sua autobiografia, scrisse:
«Adolescente, dopo aver frequentato la scuola elementare, poiché dimostravo un forte inclinazione per il disegno, il mio genitore mi occupò in una officina di incisore, ove però rimasi pochissimo; di mia iniziativa, andai poi a lavorare come garzoncello presso pittori di decorazioni, accanto ai quali, cominciai ad apprendere i primi elementi del disegno; contemporaneamente frequentai la scuola serale.
Vista questa mia spiccata tendenza artistica, mio padre, pur sottoponendosi a sacrifici non lievi, volle che frequentassi l’Istituto di Belle Arti, che seguì di malavoglia. A causa di quella naturale insofferenza che mi dominava, presto l’abbandonai.
Nel contempo avevo cominciato ad apprezzare e meditare sui grandi capolavori dell’arte italiana, ammiravo Roma, e compresi che solo Roma mi poteva essere maestra».
Anche per questo quando, nella fase analitico/documentale di un progetto, ai miei studenti è richiesto di produrre un “abaco” del luogo (una sorta dizionario figurato dell’architettura locale), chiedo loro di disegnare rigorosamente dal vivo gli edifici da documentare, piuttosto dalle fotografie!
Per mia esperienza, infatti, ritengo che qualsiasi immagine venga trasmessa dai nostri occhi al nostro cervello e da esso al nostro braccio, alle dita, alla matita, prendendo finalmente forma sul nostro sketchbook, quell’immagine diverrà parte del nostro codice genetico … o perlomeno parte indelebile della nostra memoria remota. Ciò significa che ci fornirà di uno strumento aggiuntivo, invisibile, in grado di permetterci di progettare in armonia con i luoghi su cui interveniamo. Diversamente, uno schizzo fatto copiando una foto, non lascerà alcun segno del suo passaggio nella nostra memoria, e presto sarà dimenticato.
Come è facile comprendere, tutto ciò implica l’impiego di uno strumento, che è impossibile ignorare nell’attività degli architetti: il disegno manuale!
Ragion per cui chiedo a tutti:
Potremmo mai immaginare che un chirurgo possa intervenire su un organo del nostro corpo senza usare il bisturi?
Potremmo mai immaginare un ingegnere strutturista che possa decidere le strutture di un edificio senza la conoscenza della statica?
Potremmo mai pensare ad un regista cinematografico che possa fare un film senza usare una cinepresa?
Se dunque la nostra risposta a tutte queste domande riguardanti il modo corretto di esercitare una professione è sempre “NO”, per quale assurda ragione dovremmo ritenere possibile, per un architetto o per uno studente di architettura, di poter fare a meno del disegno manuale?
[1] Royal Institute of British Architects
[2] https://archiwatch.it/2012/08/21/parametricismo-2/
[3] http://www.patrikschumacher.com/Texts/Parametricism%20and%20the%20Autopoiesis%20of%20Architecture.html
[4] https://en.wikipedia.org/wiki/Autopoiesis
[5] Cfr. D. Prelovšek. The Profession and the Life of a Man, in Jože Plečnik. Architetto 1872 – 1957, Centro Culturale di Arte Contemporanea Internazionale. Rocca Borromea 1988.
caro Ettore, quanto è vero ciò che dici !
Si rassegnino: la realtà di domani sarà nel fatto che i veri “innovativi” saranno gli architetti che sapranno disegnare a mano, altrochè !
Ho sempre ceduto che chi sa ben disegnare a mano (e mica sono solo architetti: conosco medici, ragionieri, latinisti e tabaccai che sanno farlo) ha una sensibilità differente.
Per quanto mi riguarda il mio “matitone” e anche il mio vecchio “Zucor Premium” 200×120 non li mollerò mai. E poi, francamente, sempre solo bianco e nero… (con piacere mi par di capire che abbiamo la stessa malattia…): gli effetti speciali troppo spesso nascondono incapacità.
un caro saluto
gigi de falco
Una domanda che in altri tempi sarebbe stata definita retorica se non addirittura idiota. Al bimbo che amava disegnare e mostrava di saper tener in mano i pastelli, si preconizzava: . E’ stato il mio caso, e quello di chissà quanti altri ragazzi fin dalla notte dei tempi; uno di quelli divenne Giotto.
Ma in quest’epoca che spaccia per arte gli scarabocchi incomprensibili, gli spacchi nella tela, le merde
inscatolate o sfuse, la risposta -NO – deve essere evidentemente asseverata da dimostrazioni.
Com’è noto, la stupidità è la patologia più dannosa e refrattaria ai tentativi di cura; quando però è elargita ex-cathedra da luminari del pensiero, allora significa che siamo al “si salvi chi può”.
E infatti siamo alla espulsione dell’essere umano dai processi creativi (di cui è sempre stato unico detentore), alla sua parificazione col meccanismo (vedi partite a scacchi tra persona e computer, in cui quest’ultimo batte l’umano). Il parlare di “intelligenza artificiale” non è altro che il segno rivelatore d’una concezione meccanicistica della Natura, in cui l’uomo non è altro che una macchina un po’ più complessa delle altre, quindi scomponibile nei suoi elementi e riproducibile in ogni sua caratteristica. Che differenza c’è fra Leonardo e il pennello che usa per dipingere? Fra Beethoven il suo pianoforte? Nessuna: istruendo adeguatamente il pennello e il pianoforte otterremo gli stessi risultati cui pervennero i due grandi…..
E così, a che serve che un architetto sappia disegnare? C’è il programma che “crea” al posto tuo….
Un qualunque moccioso analfabeta è così in grado di “creare” quello che vuole, e di sentirsi Leonardo, Giotto, Beethoven o chi gli pare: evviva, siamo tutti geni….
Saluti a tutti.
Io insegno restauro architettonico alla Facoltà di Architettura di Firenze e ai miei studenti per il loro lavoro d’esame chiedo che una tavola , tra tutti gli elaborati, sia disegnata a mano. Ovvero li obbligo a fare un disegno a mano per poter sostenere l’ esame. Quasi tutti mi guardano come fossi un extraterrestre e alcuni forse cambiano docente. Ma alla fine i più felici sono proprio loro che per la prima volta (al terzo o quarto anno della Facoltà) hanno realizzato un disegno a mano che probabilmente neppure pensavano di saper fare! E hanno capito che disegnando a mano si comprende molto meglio l’ edilizia storica e anche l’ architettura monumentale. Alcuni (anche tra i colleghi) pensano di me che sia una despota, altri che sono “fuori tempo ” ma io proseguo forte delle mie convinzioni e oggi sono felice di sapere che non sono sola. GRAZIE!
Ho frequentato la facoltà di architettura a Firenze, e con piacere ed orgoglio ho sempre ricordato ai miei studenti, ed ancora a mio figlio, il corso di disegno e rilievo della prof.ssa Mandelli durante il primo anno; a febbraio, con matita e blocco per gli schizzi a misurare con l’occhio, le mani ed il nostro passo, e restituire a mano libera planimetria e prospetti di piazza Santissima Annunziata. Tecnica e creatività danno concretezza all’idea del progetto, passando attraverso la conoscenza e la comprensione dei luoghi e dei sistemi di relazione che li caratterizzano. I parametri conoscitivi assumono significato solo nel momento in cui, tutti insieme, ci consentono di intuire, in un processo induttivo, ciò che ha dato forma e concretezza a quello spazio architettonico: l’idea del progetto non solo, ma anche la sua relazione con le dinamiche del contesto, le sue vocazioni. E per me questo costituisce un dato sensibile che non può essere frutto virtuale di elaborazioni informatiche, ma è ancora indissolubilmente connesso all’interpretazione percettiva dell’architetto ed alle sue conoscenze in tema di tecnologia.
Grazie dunque per il suo lavoro.
Un architetto senza disegno, non necessariamente a matita, ma sarebbe meglio, semplicemente non può esistere mentre è vero che può esistere SOLO col disegno, come fra tutti dimostro’ Piranesi. Non esiste altro modo per dar vita al progetto, che è architettura non realizzata in attesa di esserlo.
Il disegno è osservazione, analisi,
controllo delle proporzioni, è un percorso mentale che attraverso la sensibilità del segno porta alla nascita o alla elaborazione di una idea. Come si può rinunciare a questo?
A seguito di una ricerca sul significato del termine “parametrismo”o “parametricismo” sono casualmente capitata qui!Ho trovato tutto molto interessante ed essendo o un’ottantaquatrenne,accanita disegnatrice non posso che condividere in pieno a quanto scritto!
Sono un imprenditore edile ultra sessantenne ,nel passato visionando progetti redatti da architetti ingegneri civili edili e geometri ,subito saltava all’ occhio l’autore del progetto senza verificare il timbro dell’ordine di appartenenza. Oggi mi riesce difficile difficile individuare l’opera progettata e a quale professionista attribuirla. L’uso del pc con i software tipo autocad rendono gli elaborati grafici tutti uguali.Credo che l’uso del pc sia importantissimo per tutto, ma i progetti eseguiti dagli architetti sino a pochi anni fa erano opere d’arte. Le scuole di architettura dovrebbero insegnare a disegnare e schizzare anche a mano libera .Oggi non pù. Gli architetti delle nuove generazioni non sanno farlo .
parole sante!
Ai nostri studenti (americani della University of Notre Dame School of Architecture) vietiamo l’uso del computer fino al termine del terzo anno, i loro progetti sono fatti a mano e finiti ad acquerello.
Alla fine dei giochi, grazie alla formazione che gli diamo, da maggio ad agosto che l’università è chiusa, sono tutti impiagati nei più grandi studi di architettura che se li contendono e pagano molto bene. Una indagine federale svolta alcuni anni fa ha rilevato che oltre il 92% dei nostri laureati, a differenza degli altri laureati in qualsiasi altro ateneo e in qualsiasi altra disciplina.
Questi numeri, da soli, dovrebbero far riflettere