Su suggerimento di Luciano Belli Laura, torno ad occuparmi dell’annosa vicenda dello stadio “della” AS Roma Calcio a Tor di Valle, proponendovi un suo nuovo pezzo che, col suo permesso, ho rimaneggiato.
Le riflessioni odierne, sull’urbanistica e l’architettura, risultano molto utili non solo a riflettere su quanto – nelle reali intenzioni dei proponenti – lo stadio risulti essere una mera e quasi insignificante appendice al “Business Park” di Pallotta & Parnasi, ma soprattutto sul fatto che, a meno di preoccupanti forzature normative, la nuova soluzione risulti irrealizzabile.
La nuova soluzione non potrà infatti considerarsi realizzabile, se saranno espresse tutte le prescrizioni accompagnanti l’assenso condizionato (ergo non affatto unanime) emerso in occasione della Conferenza di Servizi del 4 e 5 dicembre sul progetto finale adeguato e più volte modificato.
Inoltre, la nuova versione del Business Park non potrà realizzarsi, se non sarà completato tutto l’iter di adozione, pubblicazione, osservazione, controdeduzione e approvazione della Variante Urbanistica al PRG. Quest’ultima, infatti, risulta un atto indispensabile al completamento dei procedimenti prodromici di V.I.A. e V.A.S., ergo alla conclusione del procedimento autorizzativo del progetto avviato l’ormai lontano 12 settembre 2016. Per di più, la nuova soluzione non potrà consentirsi finché non risulti chiaramente specificato in Convenzione l’impegno del proponente a realizzare, prima o contestualmente alla realizzazione delle opere private, tutte le opere di urbanizzazione.
Infatti, nel rispetto delle attuali regole, solo a seguito di questi passaggi sarà possibile arrivare alla determina della Conferenza di Servizi di chiusura del procedimento e, conseguentemente, alla deliberazione della Giunta regionale, assegnante il titolo abilitativo al proponente, con efficacia di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza alla realizzazione delle opere progettate.
BUSINESS PARK o STADIO? Critica ARCHITETTONICA ed URBANISTICA
Da quattro giorni gira una nuova icona di “Citylife Trigoria”, che relega lo stadio “della” AS Roma-Calcio sullo sfondo, ponendo in primo piano la nuova configurazione del Business Park, sempre griffato da Daniel Libeskind ma, questa volta con l’apporto, nientepopodimeno – svela Luca Parnasi a il Tempo, sabato 16 dicembre 2017 – di “Carlo Ratti, professore al MIT di Boston presso il dipartimento di Domotica”. Il nuovo progetto – sempre a detta del proponente lo stadio – riguarderà addirittura “il quartiere generale delle principali aziende“ insediabili nel “Tor di Valle smart working”.
Per chi non conoscesse la nuova archistar nostrana dell’operazione, Carlo Ratti è quell’architetto – ossessionato dall’idea della cosiddetta “Smart city” – secondo il quale nel nostro futuro, “radioso e digitale”, molte funzioni e professioni di oggi andranno a scomparire perché obsolete, (per esempio il dermatologo) sicché i robot si sostituiranno agli esseri umani e pagheranno anche le tasse. Della sua visione di “Smart City”, nell’articolo “l’italiano raso al suolo dagli italiani”, pubblicato lo scorso 25 novembre[1] – ormai divenuto “virale” – Vittorio Sgarbi ha scritto «Ci sveglieremo, tra qualche anno, in una Smart city, leggendo un paper, con una irritazione alla pelle. E ci sentiremo soli. Interpretando le profezie di Ratti, tutti i dermatologi avranno chiuso gli ambulatori. Nella nuova città interconnessa gireremo come fantasmi, parleremo con i muri. E, non avendo risposte, rinunceremo ad andare al prossimo convegno della Confapi, per evitare inquietanti rivelazioni».
Tre giorni fa, nel blog.urbanfile.org, è stata mostrata la sorprendente immagine del nuovo progetto accompagnata dal seguente caustico giudizio: «la qualità del disegno è senza dubbio alta, ma a rendere il tutto più mediocre (speriamo davvero di essere smentiti) è il fatto che per recuperare le volumetrie necessarie al sostentamento dell’intera operazione si sia dovuti ricorrere ad una distribuzione degli spazi, più costipata e claustrofobica».
Difficile immaginare altre considerazioni architettoniche più appropriate, visto che la soffocante concentrazione delle strutture ove dovrebbe svolgersi lo “smart working” (lavoro intelligente), suscitano effettivamente una certa claustrofobia. Facile, invece, capire come si possa essere arrivati a questa soluzione: le tre torri, alte in media duecento metri, sono state rimosse e sostituite da diciotto edifici di dieci piani, formanti tre corti diversamente articolate ed attraversate da corpi più bassi e/o sospesi in alto.
Ogni architetto – bianco per antico pelo – che ignori le ricerche svolte presso il SENSEable City Lab di Boston sotto la guida del geniale architetto torinese, potrebbe obiettare che queste “corti” non abbiano proprio nulla del “campus” americano, mentre richiamano molto da vicino il “ghetto” suburbano – londinese, berlinese o d’ogni altro luogo – derivante dallo sfruttamento del suolo a fini speculativi.
Inoltre, un architetto abituato a realizzare affacci su vie e piazze aperte, potrebbe criticare questi affacci su corticelle triangolari i cui angoli risultano più stretti d’un cavedio per ascensore. Vien quindi da immaginare che Ratti, servendosi della “tecnologia al servizio della Smart City” – già utilizzata nel fare il Digital Water Pavillon per l’expo di Saragozza[2] – gli affacci sulle corticelle verranno eliminati del tutto, trasformando le pareti in getti di pixel calati dal soffitto al pavimento d’ogni spazio con immagini di bagnanti – se atti a definire i luoghi dello shopping e, forsanche, allucinanti e/o repellenti (onde non gettarsi nel vuoto) se delimitanti gli spazi del working “intelligente”, anzi geniale, che si farà a Tor di Valle.
Risulta altresì facile fare una piccola osservazione urbanistica che, a differenza di quelle architettoniche, sarebbe anche oggettiva e inoppugnabile. Basti ricordare che, nel lontano 1967, in attesa della riforma urbanistica varata dieci anni dopo, il legislatore fu costretto ad approvare la Legge Ponte, che estese l’obbligo della “licenza edilizia” a tutto il territorio comunale. Una licenza di costruzione assentita solo in presenza d’opere di urbanizzazione primaria, secondaria e indotta, subordinata alla dotazione minima di servizi per abitante (gli standard urbanistici), nonché al rispetto di limiti inderogabili di densità edilizia di altezza, di distanza fra i fabbricati. Quest’ultimi per impedire insalubrità e carenze igienico-sanitarie e, pertanto, stabilenti che ogni edificio fosse realizzato a distanza da un altro pari all’altezza di quello più alto.
Per intenderci, in una corte quadrata delimitata da edifici alti 12 metri, il lato di base dovrà risultare pari a 12 metri; Diversamente, in una corte rettangolare, ogni lato dovrà essere lungo quanto l’altezza degli edifici eretti al suo bordo … ragion per cui, per il semplice fatto che, solo nel punto medio d’ogni lato, si può rispettare la distanza tra i fabbricati eretti sul perimetro del triangolo di base, nessuno s’è più sognato di fare corti triangolari!
Infatti, in prossimità degli angoli, le pareti di tali edifici s’avvicinano sino a toccarsi, impedendo al sole di arrivare alle finestre dei piani bassi, trasformando così quegli angoli in immondi ricettacoli di monnezza, regno dei “Ratti”, degli scarafaggi e della muffa.
In che modo, quindi, sarebbe possibile pensare che a Tor di Valle la monnezza d’ogni genere ed i sorci d’ogni tipo possano debellarsi, demolendo le strutture dell’Ippodromo, se poi andranno a riapparire nelle nuove tre corti triangolari griffate Ratti-Libeskind?
Forse i proponenti credono di poter aggirare il Pronunciamento del Consiglio di Stato che considera la distanza tra i fabbricati inderogabile in ogni intervento diretto, ma derogabile in caso d’intervento subordinato all’approvazione d’uno strumento esecutivo, d’attuazione del Piano Regolatore? E se mai così fosse, come si può aggirare il divieto – vigente in tutto il Lazio – di fare piani esecutivi in variante al Piano Regolatore Generale?
Evidentemente, a Roma Capitale, questa magia della “Maggica”, sarà possibile solo con somma ipocrisia, definendo Master Plan ciò che non sarebbe approvabile né tramite progetto singolo né tramite piano esecutivo!
Evidentemente, così come nella Parigi di Napoleone III Haussmann dava a credere di poter far sparire la peste, demolendo interi quartieri dove nel ’48 erano state erette le barricate, a Tor di Valle, è possibile far credere che, facendo sparire l’Ippodromo, è possibile far sparire il degrado, la monnezza ed i sorci!
La differenza è però che, mentre nella Parigi di Haussmann con gli sventramenti ed i boulevard – necessari al più rapido movimento delle truppe d’oppressione della rivolta – il Prefetto della Senna ricreò il nuovo volto di Parigi, nella Roma Capitale di oggi – riferendosi all’Ippodromo – s’afferma: «quando sarà demolito, andrò lì con il piccone!» (… dell’avvocato Lanzalone? O di qualsiasi azzeccagarbugli amministrativista?) e si aggiunge: «se “la Eichberg” ricorrerà al T.A.R. (Tribunale Amministrativo Regionale) noi ci difenderemo! Questo progetto deve essere preso da esempio di come una parte di questa città si sia impegnata per farlo … e poi c’è sempre qualcuno che dice no!»
Nella realtà, però, se quel “qualcuno” non crede allo smart working proposto – inteso come approccio all’organizzazione aziendale e poi, financo, urbanistica – è perché si rende conto che, la necessaria “Variante” picconerà il vigente Piano Regolatore di Roma Capitale allo stesso modo con il quale, ovunque in passato, ogni strumento urbanistico è stato stravolto dal piccone di personaggi come quelli raccontati ne “Le mani sulla città”.
[1] http://www.ilgiornale.it/news/cronache/litaliano-raso-suolo-dagli-architetti-1467219.html
[2] http://www.archiportale.com/news/2007/08/architettura/digital-water-pavilion-per-expo-zaragoza-2008_10251_3.html
Carlo Ratti, che definirei l’architetto “sdraiato” sul “cloud” (per fare una fusione tra la bella metafora di Michele Serra sull’attegiamento prono delle giovani generazioni e le sue farneticazioni sull’evanescenza dei rapporti spaziali tra edifici nella dimensione cibernetico-informatica), dopo essere andato a trarre ispirazione della mente all’M.I.T., tempio degli adepti della religione del “cloud”, rientra prepotentemente in campo in Italia offrendosi come uomo-immagine per le più discutibili operazioni di soggiacenza della pianificazione pubblica agli interessi della globalizzazione immobiliar-finanziaria:il riuso di buona parte delle aree del dopo Expo a Milano come Business Center da parte di una finanziaria australiana (Lend Lease) e il Business Park incombente accanto al progetto di nuovo stadio della Roma a Tor di Valle da parte del finanziere italo-americano James Pallotta. Giusto richiamare i nefasti precedenti italico-partenopei de “Le mani sulla città”, ma segnalandone la nuova versione 2.0 di ben altra perniciosa dimensione negli effetti economico-sociali e insediativi. Oltre tutto con l’incapacità dimostrata da parte dell’uomo-immagine di governarne gli assetti fisici che – a suo dispetto – continuano a permanere insopprimibili. Parafrasando il detto “Sutor, non ultra crepidam” bisognerebbe rinviarlo al campo dell’arredo di interni, più consustanziale alla “domotica” da lui vantata come sua specializzazione (e poi anche in quello…)
Ottimo Sergio!!!!
E vabbe’, ingoiamo pure questo rendering. Poi, senza attendere nessuna Smart City, personalmente già oggi nella Roma così com’è (e come è diventata da gli anni di Giubilo, Signorello, Sbardella-Andreotti, Carraro…) parlo coi muri e con i fantasmi e percorrendo le strade lastricate di buone intenzioni ormai prossimo all’inferno, raramente mi sono imbattuto in un disegno così insulso. L’ennesima prova che i processi di produzione architettonica anche e soprattutto a scala urbana, vanno sradicati, rovesciati sin dalle loro ingannevoli radici, cioè ricominciare da capo. Un progetto economico, sociale, politico, sbagliato dalle fondamenta, non sopporta modifiche e correzioni, sortisce forme deturpanti e funzioni devianti: bisogna buttarlo. Uno dei fantasmi di nome Frank Lloyd Wright, un giorno mi ha detto : ma che cazzo state facendo ?