Barucci dimentica il detto “Chi è causa del suo mal pianga se stesso”
Lo scorso 11 giugno Giuseppe Pullara, nel suo articolo per la rubrica Roma Ieri, Oggi e Domani edito su “Il Corriere della Sera”, ha intervistato l’anziano architetto Pietro Barucci il cui lungo curriculum ci ricorda che è stato docente presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e autore di numerosi “falansteri”, annoverati tra le peggiori mostruosità urbanistico-architettoniche e sociali della Capitale: Tiburtino Sud[1], Torrevecchia[2], Laurentino 38[3], Tor Bellamonaca[4], Quartaccio[5].
Nell’intervista l’anziana “archistar” nostrana ha affermato: «Città mia come eri bella, ora sei davvero un disastro»[6].
Verrebbe da rispondere che, alla luce di ciò che ha costruito, ci voglia una gran faccia di bronzo per poter fare certe affermazioni!
L’architetto, così come la stragrande maggioranza dei suoi illustri colleghi “luminari” della Facoltà di Architettura, dovrebbe probabilmente farsi un esame di coscienza e riflettere sul fatto che, se la Roma di oggi non è più bella come quella che trovò lui negli anni ’60, lo si deve proprio a lui ed ai suoi colleghi[7]!
Egli infatti, alla domanda di Pullara “Com’era Roma negli anni Sessanta?” ha risposto: «Bellissima. Si progettava per il futuro. C’era tanto lavoro, si sperimentavano nuove tecniche di costruzione. Poi si è smesso quando non si è guardato più l’orizzonte. Tutti hanno pensato solo a fare soldi e basta. Prima, con l’entusiasmo, l’architetto viveva molto nel cantiere: il rapporto con le maestranze era diretto. La professione era apprezzata nella società».
Barucci forse dovrebbe chiedersi se, probabilmente, essendo cambiata l’immagine della città e l’apprezzamento per la professione dopo il suo passaggio, non possano essere stati lui e i suoi colleghi i responsabili del cambiamento!
La sua risposta suona infatti come la barzelletta di quel tizio che, guidando in autostrada nella direzione sbagliata ed ascoltando alla radio del pericolo di un folle che guida contromano dice: “Uno soolo?? Questi so na cifra!”
Barucci ed i suoi colleghi, con la loro tanto decantata “sperimentazione” – su delle ignare cavie umane – hanno prodotto un danno sociale ed economico ormai insanabile … a meno che non si proceda alla demolizione di tutti quegli immondi falansteri che hanno realizzato.
Nell’intervista, Pullara ha affermato: “Lei è l’unico architetto a cui hanno distrutto un’opera: i Ponti del Laurentino 38”, provocando così la piccata risposta dell’architetto: «Un’azione infame: fecero una festa con champagne. Invece di risanare i Ponti dalla malavita che li aveva occupati, il Comune scelse una via facile: abbattiamoli».
Ebbene, a mio avviso l’infamia dovrebbe esser considerata quella di aver realizzato un mostro urbanistico, spersonalizzante e criminogeno, piuttosto che averlo demolito! È troppo facile per certi progettisti ricercare la colpa del fallimento delle proprie realizzazioni ovunque, tranne che nell’ideologia che li ha guidati a progettare certi abomini disumani.
Andando avanti nell’intervista, alla domanda: “Perché le periferie di Roma sono le peggiori?”, Barucci ha risposto: «si sono diffuse su interessi personali, senza una visione sociale. Via via la nuova edilizia ha lasciato tutto il campo al potere immobiliare, che ha fatto quello che ha voluto. Poi sono perfino sparite le case popolari», finalmente arrivando alla conclusione che la città dovrebbe svilupparsi per «Piccoli quartieri, completi di servizi. Non grandi insediamenti. Ma con molta attenzione alla gestione degli immobili e a chi li abita».
… Ce ne ha messo di tempo, ma alla fine, ha compreso che quei “grandi insediamenti” – da lui teorizzati, realizzati ed insegnati – erano un fallimento, mentre i “piccoli quartieri, completi di servizi” fossero la soluzione!
A questo punto diviene però impossibile non fargli notare che quella soluzione non è un qualcosa da inventare, perché era la caratteristica della Roma antecedente la tanto decantata “sperimentazione” di Barucci & co.
Basta infatti visitare gli ex quartieri popolari di San Saba, Garbatella, Città Giardino, Testaccio, Sant’Ippolito (meglio noto come Tiburtino II), Piazza d’Armi (oggi Piazza Mazzini), Trionfale, Appio I e II, San Pancrazio (IV Venti), Flaminio, ecc. per constatare che quel genere di interventi “virtuosi” – nati come popolari ed oggi considerati dal mercato immobiliare alla stessa stregua del centro storico – rappresentano l’immagine della “bellissima” Roma che Barucci & co. trovarono negli anni ’60 … decidendo però di ignorarla (perché “borghese”), rimpiazzandola con gli immondi falansteri che, senza ammetterlo esplicitamente, Barucci stesso ritiene oggi non più validi, ammettendo la necessità di dover realizzare «Piccoli quartieri, completi di servizi. Non grandi insediamenti».
A questo punto però, se fossi stato Pullara, gli avrei chiesto: “ma se la soluzione era questa, perché avete preferito fare sperimentazione ignorando dei modelli già testati e perfettamente validi?”
Il danno dei progettisti e dei docenti della generazione di Barucci non si limita alle periferie antisociali che hanno realizzato ma, attraverso l’insegnamento ideologico e dogmatico, si estende all’immensa produzione di professionisti che, riponendo una fiducia assoluta nei propri “maestri lobotomizzatori” – credendo in buona fede di essere nel giusto – hanno finito per superare quelli, progettando mostruosità sempre peggiori!
A riprova di questa mia affermazione, c’è la dichiarazione rilasciata dal progettista del Corviale di Roma, Mario Fiorentino, che disse:
«Ci sono due modi di fare Architettura … o forse ce n’è solo uno … c’è quello semplice e pacato dell’utilizzazione degli schemi super testati che l’edilizia pubblica in Italia – e non considero solo quella romana – ha più o meno accettato. E poi c’è quello sperimentale, che è il metodo a cui l’esperienza di Corviale appartiene. Io ricorderò sempre come Ridolfi, che è stato il mio vero maestro, sempre mi diceva: “quando progetti per un cliente (e l’edilizia pubblica è un cliente come un qualsiasi altro privato), senza rivelarglielo tu devi sempre sperimentare” perché, in effetti, queste sono esattamente le opportunità nelle quali gli esperimenti possono essere fatti!»
Ebbene, nell’intervista di Pullara ci vien detto che la stessa si è svolta nella bella casa dell’architetto in via Margutta … una casa quindi di uno di quei “quartieri borghesi” che la generazione di Barucci vedeva come un “male” dal quale fuggire … o meglio un male dal quale “gli altri” dovessero fuggire.
Mi spiego meglio. Come ho accennato in precedenza, durante l’intervista il professore lamenta il fatto che le periferie romane «si siano diffuse su interessi personali, senza una visione sociale» … ragion per cui risulta opportuno far conoscere ai lettori quale fosse la visione sociale della sua generazione.
Negli anni ’60, sulla scia emotiva post bellica ed antifascista, specie a partire dal ritorno in Italia di Bruno Zevi, i teorici dell’architettura pensarono bene di elaborare una visione sociale “antiborghese”, laddove il termine “borghese” veniva considerato sinonimo di “fascista”.
Questa visione si tradusse nella repentina espansione a macchia d’olio delle città, con “quartieri” costituiti da scatoloni di cemento, zone monofunzionali, assenza di luoghi di aggregazione e conseguente disagio sociale! … Gli unici a trarne beneficio furono, ovviamente, gli speculatori fondiari e immobiliari (spesso ex fascisti), mentre il settore artigianale iniziò la sua parabola discendente verso la sparizione definitiva … l’opera non standardizzata degli artigiani era ritenuta troppo borghese per poter avere ancora un valore!
La cosa gravissima – e che nessuno ha mai avuto il coraggio di condannare – è che tutto ciò non sia stato messo in pratica ad opera di spregiudicati costruttori mafiosi, come qualcuno ha cercato di farci credere, bensì da chi, stando dietro delle cattedre universitarie, o dirigendo delle riviste di architettura, o sproloquiando ovunque gliene venisse data la possibilità, arrivò a teorizzare che questa scelta avesse un obiettivo filantropico!
A chiarimento di questa affermazione citerò una frase tratta dal libro “Tra le Modernità dell’Architettura” di Andrea Sciascia, libro scritto in difesa del tristemente famoso quartiere ZEN, realizzato da Vittorio Gregotti a Palermo. La frase è comunque di Giancarlo De Carlo:
«Il loro ultimo fine (degli architetti n.d.r.) era di materializzare l’idea che la città storica, espressione delle classi sociali che avevano dominato e oppresso la società umana, doveva essere abbandonata ai suoi fondatori, mentre alle classi sociali popolari in ascensione sarebbero stati destinati i nuovi quartieri costruiti in periferia che, aggregandosi, avrebbero finito col generare la Nuova Gerusalemme: la città della società senza classi, libera, giusta e fraterna»[8].
L’ideologia quindi, accompagnata dalla presunzione e dall’arroganza di una certa categoria di architetti e docenti, non ha fatto altro che creare le basi teoriche che consentissero agli speculatori di far fruttare i propri interessi, devastando il territorio.
Si badi che, parlare di ideologia, presunzione ed arroganza di certi architetti e docenti, non è frutto di un’ideologia opposta – come qualcuno in malafede potrebbe sostenere – bensì il frutto di una presa di coscienza della necessità di far conoscere la verità alla gente comune che, spesso e volentieri, (come nel citato Corviale di Roma) è stata utilizzata per testare teorie assurde derivanti da interessi nascosti. Questa sperimentazione – termine tanto caro a Barucci ed ai sostenitori dell’architettura contemporanea – è sempre stata operata nella totale inconsapevolezza da parte delle “cavie umane”.
Del resto, la conferma della menzogna del concetto di “Nuova Gerusalemme: la città della società senza classi, libera, giusta e fraterna” abbiamo potuto ascoltarla direttamente dalla bocca del progettista dello ZEN, Vittorio Gregotti il quale, intervistato da Enrico Lucci durante la puntata del 20 febbraio 2007 de “Le Iene”, alla domanda «perché, se sostiene che sia tanto riuscito e bello non ci va lei a vivere allo ZEN?» rispose: «che c’entra, io faccio l’architetto, non faccio il proletario!»
E allora sì, citando il titolo dell’ultimo libro di Pietro Barucci «I fortunati decenni» (Gangemi ed.), possiamo sicuramente ammettere che, per gli architetti e i docenti come lui, quelli furono davvero decenni fortunati … ma di certo non lo furono per la città e per i suoi abitanti, ragion per cui occorrerebbe cospargersi il capo di cenere e riconoscere che, se la Roma di oggi fa schifo, la colpa non è – come sostiene Barucci – degli «degli autobus che scoppiano e delle pecore fanno da giardinieri……manco in Africa!», ma dell’opera progettuale di chi, standosene comodamente in case meravigliose del centro storico, abbia teorizzato e realizzato un abominio urbanistico-architettonico, antisociale, spersonalizzante e criminogeno che oggi, grazie alla cialtronaggine politica, si sta ritorcendo sul centro storico stesso!
Occorrerebbe infatti riflettere sul fatto che, se gli speculatori romani di oggi – tramite la “Sblocca-Italia”, l’immondo Piano Casa e la pessima Legge Regionale del Lazio sulla Rigenerazione Urbana – si rivolgono al centro storico, lo fanno perché il mercato immobiliare in periferia non è più appetibile come una volta.
Visto quindi che Barucci si preoccupa dell’assenza di una “visione sociale”, provo a fornirgliene una, invitando lui e chiunque la pensi come lui a riflettere sulle parole del socialista utopista inglese Owen sulle conseguenze sociali portate dalla rivoluzione industriale:
«Quando la borghesia si accorgerà che le città sono diventate delle polveriere, che in esse maturano idee rivoluzionarie, e addirittura vere rivoluzioni, in quel momento crederà opportuno intervenire non tanto per cercare di migliorare la condizione della classe operaia, quanto per conservare se stessa e il suo potere».
Una volta assimilato questo concetto, piuttosto che attribuire – come fa Barucci nell’intervista – il fallimento delle periferie al tipo di residenti, farebbe bene a ripensare al caso di via Ticino e di Villa Paolina di Mallinckrodt e a tutti gli altri in itinere e, parafrasando Owen ammettere:
«Quando architetti, docenti e politici si accorgeranno che il degrado e la scomparsa del centro storico è dovuto all’attacco speculativo degli immobiliaristi che hanno perduto interesse nelle periferie, in quel momento crederanno opportuno intervenire, non tanto per cercare di migliorare la condizione delle periferie, quanto per conservare la qualità del loro amato centro storico».
[1] http://www.pietrobarucci.it/volumi/vol_4_imm.html
[2] http://www.archidiap.com/opera/quartiere-di-torrevecchia/
[3] http://www.archidiap.com/opera/quartiere-laurentino/?_sf_s=Laurentino%2038
[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Tor_Bella_Monaca
[5] http://www.archidiap.com/opera/quartiere-del-quartaccio/
[6] https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/18_giugno_11/pietro-barucci-roma-mia-come-eri-bella-ora-sei-davvero-disastro-729e8c3e-6ce1-11e8-8fe1-92e098249b61.shtml
[7] http://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2017/06/28/periferie-griffate-quando-il-cattivo-esempio-viene-dallalto-le-ragioni-della-difesa-dellindifendibile-da-parte-del-mondo-accademico/
[8] Andrea Sciascia, Tra le Modernità dell’Architettura – la questione del Quartiere ZEN 2 di Palermo, L’Epos Edizioni, Palermo 2003.
…grazie Ettore, sei grandissimo!… Fossi il Presidente del Consiglio dei Ministri, ti affiderei il dicastero dei Lavori Pubblici…
In quel momento storico il capitalismo privato e di Stato e lo sviluppo delle forze della produzione era arrivato a quella definizione funzional-formale della merce edilizia pubblica. Non è più tempo di avventarsi contro questo o quello dell’ampia schiera di falliti in tutti i campi che hanno funestato le città del mondo. È tempo di muoversi e, come ho letto, di attivare tutti i canali della critica…che è l’unica possibilità di salvezza.
A bien tot.
Hai ragione. In questo come in tanti altri campi, i propagatori della peste deprecano gli effetti della malattia e propongono se stessi come medici per curarla…….Altro che facce di bronzo: facce di qualcosa che ci fa rima……..
Barucci era il genero di Muratore…se non erro…Il che spiega l’affetto con cui il professore lo trattava.
Ciò non di meno hai ragione da vendere.
Barucci era molto integrato nella cordata che gestiva le case popolari a Roma e che, per il popolo basso, comunque praticava una politica sovietica. Poi s’erano invaghiti della prefabbricazione pesante per cui i risultati li vediamo benissimo.
Io stento veramente a trovare, in quest’edilizia, qualcosa di sensato…aiutatemi voi…ho paura che anche i costi non siano stati realmente ed efficacemente minori dell’altro tipo di edilizia…quella delle cooperative e delle palazzine.
Sarebbe interessante fare qualche raffronto storico…c’è qualcuno che se ne interessa ? o qualche pubblicazione ?
Saluto
Caro Memmo,
si, hai ragione Muratore era genero di Barucci.
Quanto al raffronto, l’ho fatto in maniera molto approfondita sul mio libro “La Città Sostenibile è Possibile” (Prefazione di Paolo Marconi, Edizioni Gangemi, 2010) riportando i dati reali finali dei costi e dei tempi presi presso l’Archivio dell’ex IACP. Per la precisione ho messo a raffronto gli edifici (differenziati per tipologia) dei vari quartieri del primo Novecento (San Saba, Testaccio, Garbatella, Appio, Trionfale, Piazza d’Armi, Flaminio, Porta Latina, ecc.) con quelli del Corviale. I costi “antichi” sono ovviamente stati riportati da £/vano ad €/mq ed €/mc e rivalutati secondo i dati ISTAT … il risultato è sconcertante, perché si arriva a costi del 67% in meno dell’edilizia corrente, mentre quelli del Corviale sono praticamente identici. Quanto alle tempistiche invece, mentre per esempio il nucleo iniziale di San Saba (44 case), venne realizzato in 6 mesi e mai più restaurato, risultando ancora oggi in splendida forma, per avere i primi 122 alloggi di Corviale disponibili occorsero 7,5 anni … e, fino al 2010, ben 46 mln di euro di opere di restauro perenni. Poi c’è il lotto delle “Case per Sbaraccati e Sfollati” realizzato da Giovan Battista Trotta alla Garbatella, anch’esso realizzato in soli 6 mesi, oppure il famoso Lotto 24 (le “Case Modello”), progettato in un mese e realizzato in soli 3 mesi, sempre alla Garbatella!!! Se ti interessa il mio libro possiamo incontrarci perché, avendo partecipato alle spese di pubblicazione, ho una serie di copie da vendere a prezzo scontato. Ciao. Ettore
Bene …gioisco per lo sconto !
Dove devo passare ?
Saluto
Caro Memmo,
mandami una mail privata ad archmazzola@gmail.com e ti do il mio numero di cellulare così ci mettiamo d’accordo per l’incontro
Ciao
Ettore
Non a caso parlavo di “falliti”, come le città in cui viviamo, proprio guardando ai risultati oggettivi e dunque anche ai costi. Poi sai…faccio tutto a occhio !
La dimostrazione che la forma insieme alla qualità e infine a quella che si definisce bellezza,
sono prodotti “sociali”, sul piano urbanistico architettonico a cui si deve aggiungere il contributo individuale decisivo del singolo progettista che consente di sviluppare la critica estetica.
caro Mazzola quest’articolo -con foto- è un manifesto. Abbiamo il coraggio di proclamare che quei quartieri vanno demoliti e ricostruiti con criterio umano, questo può essere il senso positivo della nuova parola alla moda Rigenerazione Urbana che, senza demolizione/ricostruzione non potrà che essere come aspirina per una malattia grave. Unica precisazione: Ridolfi tra tanti nefasti della sua generazione, nella città di Terni ha costruito molti edifici modernisti ove però si nota benissimo un accento particolare che lo fa rifuggire dalle banalità/serialità; vale la pena esaminarlo.
Precisazione doverosa, dove l’opera del grande architetto si inscrive in quella di coloro che non hanno ceduto pedissequamente al paradigma dell’industrializzazione massiva del prodotto abitativo. Poco al di sotto del genio Moretti.
Sono andata a ripescare l’intervista citata da questo aticolo. In effetti una faccia tosta raccapricciante. Da individuo fuori di testa, e non da intellettuale che vale la pena di essere intervistato. Mi fa specie il Corriere…