In questi giorni siamo tutti sotto shock per l’immane tragedia di Genova, una tragedia che, però, in molti avevano preannunciato … Tuttavia, come di consueto, coloro i quali lo avevano fatto sono stati ignorati, considerati dei “complottisti”, degli “uccelli de malaugurio” e quant’altro.
Eppure non ci voleva una pirandelliana “patente” da menagramo per riconoscere che quella struttura cinquantenne, costruita con materiali da costruzione “non eterni” e sottoposti ad uno stress estremo, prima o poi potesse venir giù!
Addirittura, subito dopo la sua realizzazione, perfino Bruno Zevi aveva preconizzato: “le opere di Riccardo Morandi sembrano raggelate un momento prima del crollo”[1] … cosa del resto già accaduta nell’aprile del 1964 ad un altro ponte di Morandi, il “General Rafael Urdaneta” gemello Venezuelano di quello di Genova, sebbene quel crollo avvenne a seguito di un violento urto di una petroliera contro un pilone[2] …
Nelle tristissime ore successive al disastro, nell’Italia “degli allenatori della Nazionale che perde, degli economisti, dei medici e degli ingegneri” – oltre che degli sciacalli politici – sulla rete, sulle TV e sui giornali, come di consueto, hanno iniziato a proliferare i pareri espressi dagli “esperti fai da te” e, purtroppo, anche da parte di “esperti” veri e propri – alcuni raccapriccianti – invitati a spiegare come sia stato possibile questo disastro.
Per esempio è il caso di ricordare, o farei meglio a dire, “censurare”, il parere di un ingegnere[3] che ha preferito restare anonimo (e posso capirne il perché), che ha sostenuto che il crollo possa essere stato innescato dal passaggio di un fantomatico Tir sovraccarico, “rigorosamente” scampato al disastro, ergo non verificabile … un po’ come avveniva con gli “invisibili” terroristi di Al-Quaeda all’epoca di Bush.
Sentire un ingegnere sostenere delle tesi del genere fa accapponare la pelle … Infatti, considerato il volume di traffico pesantissimo che invade le nostre autostrade, dovremmo per caso affrontare il nostro prossimo viaggio terrorizzati dall’idea di imboccare un viadotto accanto ad un autoarticolato? O forse faremmo meglio a pensare che sia già partito quel depistaggio utile a poter gridare “tana libera tutti!” in modo che non possa mai esserci un responsabile che paghi per la perdita di tante vite umane?
Un altro esempio censurabile è quello del noto docente romano che, in TV, dimenticando alcune problematiche basilari del c.a., come per esempio la carbonatazione[4], ha sostenuto che il cemento armato, dopo 50 anni risulti più resistente che al momento dell’ultimazione dei lavori … perché mentire così spudoratamente?
Poche ore dopo la tragedia, è anche partito uno squallido sciacallaggio politico, che ha visto tutte le maggiori testate giornalistiche facenti capo ai partiti dell’ex maggioranza, scaricare le colpe sul M5S e sul governo attuale, sulla base di un post del 2013, rimosso dalla rete, nel quale alcuni esponenti genovesi del Movimento coinvolti nel “Comitato no gronda”, avevano stupidamente ironizzato sulla presunta pericolosità del viadotto sul Polcèvera…
Purtroppo quegli sciacalli non avevano preventivamente verificato che quel post strumentale facesse capo ad un gruppo che, nel 2013, non avesse alcun potere politico, mentre da molti anni esistessero delle interrogazioni ministeriali, molto ben circostanziate, indirizzate prima al Ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi (2014) e poi, nel 2015 e 2016 al Ministro Del Rio, rimaste lettera morta!
E poi c’è anche la dichiarazione, datata 2012, dell’allora Presidente degli industriali di Genova, Giovanni Calvini, il quale, insorgendo contro i “no gronda” avvertì: «Voglio essere chiaro. Questa giunta non può pensare che la realizzazione dell’opera non sia un problema suo. Perché guardi, quando tra dieci anni il Ponte Morandi crollerà, e tutti dovremo stare in coda nel traffico per delle ore, ci ricorderemo il nome di chi adesso ha detto “no”»
Inoltre, come abbiamo potuto apprendere da un’intervista rilasciata a “Il Fatto Quotidiano”, perfino Guido Bertolaso, Direttore del Dipartimento della Protezione Civile dal 2001 al 2010[5], era terrorizzato da quel ponte: «Quando attraversavo quel ponte, se ovviamente il traffico me lo permetteva, violavo tutti i limiti di velocità e ci passavo il più velocemente possibile!»
E allora perché non si è intervenuti quando ancora si poteva evitare una tragedia?
A chi oggi chieda di sapere cosa possa essere successo e perché, basterebbe considerare quanto dichiarato dal prof. Antonio Brencich – professore associato di Costruzioni in cemento armato presso l’Università di Genova – al sito ingegneri.info nel 2016:
«(il Ponte Morandi) presentò fin da subito aspetti problematici, oltre l’aumento dei costi di costruzione preventivati. […] È necessario ricordare un’erronea valutazione degli effetti differiti (viscosità) del calcestruzzo che ha prodotto un piano viario non orizzontale. Ancora nei primi anni ’80 chi percorreva il viadotto era costretto a fastidiosi alti-e-bassi dovuti a spostamenti differiti delle strutture dell’impalcato diversi da quelli previsti in fase progettuale. Solo ripetute correzioni di livelletta hanno condotto il piano viario nelle attuali accettabili condizioni di semi-orizzontalità.
[…] il ponte sul Polcèvera fu interessato da imponenti lavori di manutenzione straordinaria, tra cui la sostituzione dei cavi di sospensione a cavallo della fine anni ’80 primi anni ’90, con nuovi cavi affiancati agli stralli originari».
Per tutti questi motivi, ricorda il sito La Valigia Blu.it[6], “in un’altra intervista a Primo Canale rilasciata sempre nel 2016, lo stesso Brencich aveva definito il “ponte Morandi” «un fallimento dell’ingegneria» perché una struttura di questo tipo sarebbe dovuta durare 70, 80, 100 anni senza lavori di manutenzione di quel genere, mentre in questo caso erano stati necessari dopo appena 30 anni dalla sua realizzazione. Il professore concludeva che quando il costo della manutenzione avrebbe superato il costo della realizzazione, allora il ponte sarebbe dovuto essere sostituito. Riguardo queste sue considerazioni di due anni fa, Brencich ha detto ieri all’Linkiesta: «Non dissi niente di sconvolgente, in quell’intervista, ma mi limitai a dare argomenti a ciò che a Genova in molti, esperti e profani, sostenevano da tanto tempo: che il ponte Morandi andasse sostituito e ricostruito».
Nel mio piccolo, avendo anch’io pensato all’obsolescenza della struttura di Morandi e di tantissimi viadotti realizzati in Italia, poco dopo la tragedia, avevo postato sul mio profilo Facebook una foto del Pont du Gard, rammentando come quella meravigliosa infrastruttura romana stia lì circa dal 17 a. C. e goda ancora di ottima salute.
A chi, per giustificare la differenza di qualità tra le strutture antiche e quelle attuali, mi chiedeva se, anche all’epoca degli antichi romani ci fossero gare d’appalto al massimo ribasso, ho semplicemente replicato che la differenza qualitativa non risiedesse nel problema di gare d’appalto truccate e a ribasso, perché anche all’epoca degli antichi romani c’era corruzione … la differenza, infatti, va ricercata nella durevolezza di tecniche e materiali[7], nonché nella geometria delle forme pensata per lavorare esclusivamente a compressione ed entro i limiti suggeriti dalla logica, piuttosto che dalla sfida delle leggi della statica.
Qualcuno ha frainteso il post che menzionava l’età e lo stato di salute del Pont du Gard, innescando un dibattito – talvolta ideologico-strumentale – che però, alla fine, mi ha consentito di esternare una serie di dubbi e riflessioni al di là di qualsivoglia squallida polemica politica o da “ingegnere da strapazzo”.
Non è mio interesse, benché potrei rivendicarne le competenze, mettermi a parlare di Statica, di Scienza e Tecnica delle Costruzioni, poiché preferisco limitarmi a parlare di cose accessibili a tutti, anche ai non addetti ai lavori, che riguardano la logica del modo di costruire strade e autostrade e ferrovie nel nostro Paese.
Una delle discussioni aveva infatti riguardato la possibilità di realizzare “grandi luci” con le tecniche costruttive odierne, rispetto alle distanze più “risicate” delle arcate antiche. A mio modesto parere, nessuno ci obbliga a fare luci di 100 metri e nessuno ci obbliga a mettere al di sotto di certi ponti, case o altre strutture destinate alle persone! A chi mi ha replicato “nessuno ci obbliga, ma dovremmo rinunciare a tante cose”, rispondo che, se proprio necessitiamo di dover costruire delle strade sopraelevate, potremmo ridurre le luci di piloni e delle arcate non danneggiando nessuno … specie perché, diversamente dalla follia genovese, al di sotto di certe strutture non dovrebbero esserci dei quartieri abitati o altre attività che mettano a rischio la vita delle persone!
A mio avviso, infatti, quando si progetta un’infrastruttura del genere, occorre innanzitutto progettarne il tracciato in maniera logica, economica e rispettosa, come si è sempre fatto prima delle manie futuristiche novecentesche, sulle quali tornerò a breve. In pratica, non ci sarebbe da dover rinunciare a nulla, tranne che all’arroganza delle archistars che amano fare dei “segni” o “gesti” auto-celebrativi, come i nostri docenti universitari amavano definirli.
Esistono casi di sopraelevate urbane ben integrate a Siena, a Napoli per esempio, o la meravigliosa Piazza dei Consoli di Gubbio, ma riguardano strade o piazze urbane e non autostrade suburbane!
Considerando quindi le dichiarazioni, molto più che attendibili, del prof. Brencich, credo sia giunto il momento di prendere seriamente in considerazione il fatto che non si possa più continuare a costruire in maniera dissennata, lasciando in eredità ai nostri figli i debiti ed i costi futuri causati da un modo “sanguisuga” di costruire, ragion per cui l’ipotesi paventata di ricostruire il tratto crollato del viadotto sul Polcerva appare una stupidaggine, oltre che un pericolo per le persone ed uno spreco di denaro!
Mi spiego meglio: da anni – anzi da subito dopo l’ultimazione – si sa che il viadotto genovese rappresentasse un fallimento ingegneristico, che non si limita al pilone ed al tratto crollato, ma all’intera struttura in elevazione, che presenta pericolosissimi segni di invecchiamento che non lasciano spazio alla semplicistica proposta di ricostruire solo il pezzo mancante, sperperando milioni di euro.
È bene quindi che la professoressa universitaria che in televisione ha rivendicato la monumentalità e valore artistico del viadotto di Morandi – sostenendo di farlo studiare ai suoi studenti realizzando modellini – si metta l’anima in pace e comprenda che, oggi, non c’è altra soluzione possibile che abbattere tutta la tratta e creare un percorso alternativo che mai più metta a rischio nessuno con le sue strutture volanti che, di qui a 50 anni, potrebbero costare la vita ai nostri figli.
Quella professoressa dovrebbe spiegarci come sia possibile che, nell’epoca in cui – nel silenzio più assordante delle università – si consentono demolizioni di villini ed edifici prestigiosi all’interno delle città, quando questo “rischio” coinvolge un’opera “moderna” (Corviale, Vele, Laurentino ’38, Tor Bella Monaca, ZEN, Ponte di Genova, ecc.) le stesse università tirano su le barricate a difesa dell’indifendibile!
E già, perché quelle opere “moderne” rispondono perfettamente ai dettami del punto 8 del Manifesto dell’Architettura Futurista di Sant’Elia che affermava: «[…] i caratteri fondamentali dell’Architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città” questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del “Futurismo”, […] e pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista».
Le strutture autostradali progettate da Morandi, considerate avveniristiche all’epoca della realizzazione, oggi versano tutte in uno stato di grave pericolo[8] … delle vere e proprie bombe ad orologeria su cui gli automobilisti transitano ignari. Se qualcuno può legittimamente attribuire la responsabilità alla carenza (ingiustificata ed ingiustificabile) di manutenzione, è anche vero che, come tutti i professionisti onesti sanno, il cemento non è un materiale eterno[9], ragion per cui il costosissimo accanimento terapeutico che i “conservatori del moderno” tendono costantemente a proporre non ha alcun senso!
All’epoca in cui venivano concepite certe opere non esistevano le valutazioni di impatto ambientale, né esisteva la valutazione del “ciclo di vita” dei materiali, ergo non ci si poneva il problema di quello che sarebbe accaduto nel momento in cui l’infrastruttura sarebbe venuta meno … nell’era della presunta “sostenibilità” certi parametri non possono più venire ignorati!
È dura per tutti i fondamentalisti del “moderno” ammetterlo, è addirittura fatto divieto di parlarne, perché il mercato immobiliare rischierebbe il tracollo, ma la realtà dei fatti è che, oggi, ci troviamo davanti all’inizio della “fine del moderno”, con edifici in cemento armato ultraottantenni ormai sul viale del tramonto e che, per ovvie ragioni di sicurezza, dovremo gradualmente immaginare di sostituire nel rispetto di quel principio enunciato da Sant’Elia nel suo Manifesto.
L’impatto maggiore di questo processo di sostituzione interesserà soprattutto quegli interventi ipertrofici, figli della megalomania e dell’ossessione futurista, teorizzati da Le Corbusier a partire dalla fine degli anni ’20 e messi in atto soprattutto a partire dagli anni ’60. … non è un caso se Bruno Zevi[10], definì l’ing. Riccardo Morandi “Le Corbusier su quattro ruote“!
Le strade volanti dei progetti sviluppati da Le Corbusier, nel 1929 per Rio de Janeiro e nel 1932 per Algeri, sono esattamente quelle che troviamo sui cieli di Genova, così come le strutture ipertrofiche delle unità d’abitazione sottostanti il viadotto brasiliano sono proprio all’origine di ecomostri italiani come il Corviale di Roma e il viadotto di Genova.
Probabilmente, all’epoca di Le Corbusier, certe utopie potevano giustificarsi, forse un po’ meno all’epoca di Morandi, sebbene si debba considerare il boom economico e la conseguente perdita di contatto con la realtà, così come si debba riconoscere al Morandi di essere stato lui a realizzare fisicamente le utopie di Le Corbusier, ergo ignorandone gli “effetti collaterali”; oggi però, a seguito del disastro di Genova, ed a seguito dei numerosi crolli di ponti autostradali costati la vita a diverse persone, dovremmo immaginare un approccio progettuale molto più assennato e meno auto-celebrativo, soprattutto non dovremmo più immaginare di fare sperimentazione su delle ignare cavie umane sperperando denaro pubblico!
E allora che fare?
Basterebbe innanzitutto comprendere che sia possibile costruire autostrade che considerino in primis la loro funzionalità e costi di realizzazione e manutenzione, piuttosto che l’ego dei progettisti! Vale a dire che i progetti dovrebbero farsi nel massimo rispetto dell’orografia e abbandonando l’ossessione per i lunghi (e tediosi) rettilinei che, peraltro, fanno perdere di concentrazione il guidatore. Questo tipo di infrastrutture limiterebbe drasticamente i percorsi sopraelevati, potendosi gli stessi risolversi con strutture dalle luci contenute realizzabili in maniera ben più sicura e duratura degli “stralli” di Morandi … in realtà ciò che sto descrivendo non riguarda una misera ed insignificante visione del modo di costruire strade prive di “carattere”, ma semplicemente quello che sto vivendo tutti i giorni durante il viaggio che sto compiendo in Inghilterra, guidando attraverso Wiltshire, Devon, Dorset e Cornovaglia!
Posso assicurarvi di aver guidato per centinaia di miglia, senza mai aver dovuto attraversare alcun viadotto, perché le strade ed autostrade che ho percorso risultano tutte rispettosamente “appoggiate” al terreno, come già avevo documentato guidando in Irlanda e Scozia e in altri Paesi civili, dove i tracciati autostradali non sono stati fatti in base alle promesse elettorali e voti di scambio di qualche senatore, né in nome dello spirito auto-celebrativo del progettista di turno!
Viaggiando all’estero mi vado sempre più convincendo che la fissazione di fare viadotti ipertrofici sia una mania spendacciona prettamente italiana e, comunque, tipica di un periodo in cui tutto era ipertrofico, inclusi gli edifici come Corviale di Roma e le Vele di Napoli …
La tragedia genovese ci riporta alla realtà di dover imparare ad essere più umili e rispettosi, ma questo non significa avere una visione pessimista del mondo, perché, guardando egoisticamente il bicchiere mezzo pieno, potremmo renderci conto che, seppure in maniera non eclatante e griffata, i professionisti di oggi e dei prossimi 30 anni, saranno chiamati a dover sostituire (si spera in maniera corretta e durevole) quell’immane castello di carta edificato negli ultimi 80 anni!
[1] http://m.dagospia.com/bruno-zevi-dixit-le-opere-di-morandi-sembrano-raggelate-un-momento-prima-del-crollo-180908
[2] https://www.corriere.it/cronache/18_agosto_15/gemello-crollato-venezuela-viadotto-chiuso-ad-agrigento-altri-ponti-morandi-01f70e16-a058-11e8-8614-e56d93fd6b87.shtml
[3] https://notizie.tiscali.it/cronaca/articoli/tir-irregolare-complice-disastro/
[4] http://www.netconcrete.info/carbonatazione-del-calcestruzzo-perchea-ea-dannosa-n21.php
[5] https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/08/16/ponte-morandi-bertolaso-ogni-volta-che-lo-attraversavo-correvo-il-piu-possibile-e-violavo-tutti-i-limiti-di-velocita/4562945/
[6] https://www.valigiablu.it/ponte-morandi-genova-crollo/
[7] http://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2017/07/08/498/
[8] https://www.rainews.it/tgr/sicilia/video/2018/08/sic-viadotto-morandi-agrigento-a19-petrulla-scorciavacche-himera-cf2a8f81-16b6-4f06-b1ed-52739fd6a0fa.html
https://www.tpi.it/2018/08/16/ponti-a-rischio-crollo/
[9] https://www.huffingtonpost.it/2018/08/14/crollo-ponte-morandi-mario-tozzi-stiamo-scoprendo-sulla-nostra-pelle-la-reale-durata-del-calcestruzzo_a_23502098/?ncid=fcbklnkithpmg00000001
[10] Casabella n. 739-740, dicembre 2005-gennaio 2006
Davvero una malapianta, la convinzione di Morandi che la plasticità e duttilità del c.a. potessero essere le protagoniste della moderna Urbanistica nel suo elemento visibilmente più rappresentativo : le grandi infrastrutture viarie. Un’illusione dettata dagli sconfinati orizzonti di profitto chiaramente compresi dall’industria delle costruzioni che lasciata sempre più priva di guida strategica pubblica, ha perseguito la propria affermazione e il suo trionfo in spregio alla ragione fino al parossismo della privatizzazione e morte delle Autostrade Italiane, concesse e abbandonate dai molti padri e dalle tante società sovente quotate in Borsa. Davvero un buon business per pochi, al di qua e al di là dell’opera pubblica ( senza pubblico interesse ).
Un grande dolore, un requiem per le 39 vittime, un pensiero per i feriti, sconcerto per i 600 sfollati che abitavano sotto un viadotto!
Ancora una volta Genova al centro di un disastro annunciato.
Come sempre la tua analisi è puntuale rigorosa e completamente condivisibile e fa tremare.
Bisogna proprio voltare pagina! Dai “piani regolatori” agli appalti, serve un tavolo di lavoro che affronti lo sfacelo dell’ Italia: è possibile?
grazie Ettore. Anch’io avevo scritto qualcosa, considerando il lato più politico della vicenda, qui
https://lafilosofiadellatav.wordpress.com/2018/08/15/ponte-morandi-le-forzature-della-politica-infrastrutturale-pagate-con-le-vite-del-popolo/
che credo possa ben integrarsi con la tua proposta conclusiva costruttiva, di realizzare le infrastrutture nel nostro Paese, concependole in modo equilibrato, cosa che non è fantascienza, ma che in altre nazioni si sta già facendo, come tu ci hai testimoniato.
Se anche però questo si volesse fare, resta però ad oggi purtroppo intatta la madre di tutti i problemi della politica, compreso quello delle scelte infrastrutturali infauste, e cioè che la democrazia rappresentativa, senza sussidiarietà e autentica partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica, è semplicemente una finzione oligarchica… e quindi questa cosa in pratica non si farà, se non nella misura in cui si vorrà intraprendere la via della “Società partecipativa”:
https://lafilosofiadellatav.wordpress.com/2014/10/22/la-bussola-politici-dittatori-sveglia-ragazzi-e-la-democrazia-rappresentativa-che-e-finta/
Egr. arch. probabilmente l’errore del “genio” innamorato della sua invenzione ci sta tutto, ma non credo che il pont du Gard nei suoi 2000 anni di storia abbia sopportato un carico neanche lontanamente paragonabile a quello sopportato dal ponte di Morandi in 51 anni di vita… adesso sarebbe il caso di pensare a soluzioni più all’avanguardia tipo il viadotto di Millau nella vicina Francia, piuttosto che ai ponti romani!
Come ho già spiegato altrove, non credo che il discorso risulti pertinente, perché la durevolezza delle strutture romane, rispetto a quelle “moderne” è indubbia e comprovata da dati scientifici.
E’ ovvio che, se i romani avessero dovuto supportare un volume di traffico come quello del viadotto genovese, avrebbero costruito una struttura diversa che non un acquedotto usato per il transito attuale e lo avrebbero dimensionato opportunamente. Il problema quindi non è di resistenza, ma di durata e costi nel tempo, oltre che di sicurezza
Fino a qualche decennio addietro i ponti attraversati dalla ferrovia erano costruiti in muratura voltata.
Ce ne sono di bei esempi un po in tutto il mondo…e le locomotive, spesso anche più d’una, con i vagoni stracarichi al seguito, pesavano alquanto…Durante l’ultima guerra intere divisioni corazzate sono state trasportate avanti e indietro su questi ponti.
Mah !.. si sa …è roba vecchia….oggi.. si fa tutto con il c.a. …anche i pollai “casalinghi” devono essere progettati in c.a. altrimenti il G.C non te li passa facilmente e stai mesi a dimostragli che stanno in piedi anch’essi.
Il bello comunque viene adesso !
Vedremo la singolare coincidenza che tutte le opere più importanti del sig. Morandi sono a rischio crollo. Vedremo i LLPP che cosa ne trarranno; quali norme emaneranno … quali precauzioni raccomanderanno ?
Ci si chiederà come mai il “castello di carte ” fu fatto passare, allegramente, sopra la case …come si trattasse di un cavo elettrico ?
E la nuova “gronda” ? …. ed il nuovo ponte “Genova” ? … li durerà i pochi anni di costruzione richiesti o dovrà essere abbandonato prima dell’inaugurazione ?
Per sapere qualcosa dovremo informarci solo su Dagospia …il giullare di corte cui è tutto perdonato.
Per parte nostra, “per non sapere nè leggere nè scrivere”, incominceremo anche a dubitare di ogni ponticello in c.a.,di ogni travetto, di ogni struttura che lavora per dimensione e non per forma..
Architetti… Si ! …Fessi… No !
Saluto
Sarà spassoso pure vedere la “Caduta degli Dei” in versione casereccia e non quella narrata in modo sublime da Visconti ( ma tanto una saga è una saga ) che chiarirà a chi non l’avesse ancora capito come funziona il capitalismo senza capitali o “di relazione”,che è lo stesso, e che se guardi bene bene è da sempre per sua natura così, perché in fondo a nessuno piace troppo il rischio d’impresa, specie in Italia…ma se proprio non c’è altro modo qualcosa di proprio bisogna pur rischiare; ecco, tipo la pelle degli utenti e/o clienti.
Nel mio infinitesimale piccolo ho contribuito alla conservazione del mercato di Via Magna Grecia a Roma, di Morandi, dall’aggressione di altri capitani coraggiosi che volevano farci una delle loro opere di valorizzazione (di soldi divenuti loro non so come, ma in origine di altri) che vide il mai dimenticato Prof. Muratore fra i temerari protagonisti con motivazioni di alto profilo. Forse era un parcheggio del Piano Urbano Parcheggi di Roma Capitale, figurati, gestione Alemanno o Veltroni ma poco cambia. Ma insomma quello era un mercato ben piantato a terra, non volava sui monti e sui colli, è, diciamo, architettura. Buona, a vederla così.
Per tornare a Morandi, l’ingegnere, quando un intero sistema produttivo macina a pieno regime un modello e uno schema economico-tecnologico di respiro planetario risulta sempre un’impresa disperata opporvisi, anche e soprattutto con argomenti validi ma poco condivisi. Bisogna sbatterci il grugno, possibilmente degli altri, affinché la storia forse, insegni qualcosa, forse.
Perdonami la digressione stimato FierMazzola…stamane pensavo : e se si privatizzasse anche la Magistratura ? Tutta, intendo, facendo uscire tra l’altro il lavoro pagato al nero, non si avrebbe un funzionamento migliore della macchina della giustizia ? Invece di quel baraccone obsoleto chiamato Stato, ostaggio del demone passatista e anti moderno universalmente conosciuto come burocrazia, avremmo una società libera, priva di contraddizioni sostanziali, dove chi ha voglia di fare fa, senza lacci e lacciuoli e in più si libererebbero enormi volumi derivanti dalle dismissioni di ministeri di Grazia e Giustizia, disponibili per valorizzazioni e rigenerazioni, visto che il privato ottimizza, funzionalizza e riduce gli sprechi e soprattutto ottiene con poco quello il pubblico non raggiunge con troppo. Non so se piace…a me piace !
ahahahah Maurizio, qualcuno potrebbe crederti!
…stenterai a crederlo ma appena rientrato in me sono andato a comprare i giornali e su il Fatto ho trovato un articolo a pag.13, taglio basso, di Alessandro Robecchi che tratta con estrema competenza, serietà e un velo di sarcasmo, quello che qui sopra ho sfrittellato senza vergogna alcuna, trafitto dai dardi delle 9 e 30 di un mattino di fine Agosto.
Un saluto sempre ammirato.
Il crollo del castello di carta del titolo vorrei estenderlo all’ipocrisia borghese di taluni intellettuali sempre ospiti di trasmissioni televisive in cui inneggiano all’indignazione collettiva sacrosanta contro la conduzione delle istituzioni nazionali e sovranazionali europee circa gli sbarchi e l’accoglienza dei migranti sulle coste italiane, senza mai suggerire cosa dovremmo fare dopo esserci “indignati” ma, soprattutto, senza mai riferirsi ai crimini commessi quando molti di loro amministrando e/o governando la cosa pubblica consentivano scempi impuniti come il MOSE con relativo Ponte Calatrava, per fare un esempio mirato o il Fondaco dei Tedeschi per ampliare l’orizzonte. In una casa di riposo mai ?
Maurizio … meriti una standing ovation!
…cercherò allora di fami detestare. Mi consento di affiancarmi al futurista Sant’Elia sostenendo che benché già Marx abbia definito la burocrazia “ lo Stato immaginario accanto allo Stato reale, è lo spiritualismo dello Stato” oso di più dicendo, dalla mia esperienza tecnica, che essa è proiezione o meglio omologia dello stato reale delle cose e nella fattispecie delle cose materialmente costruite nella città e nel territorio. Ciò che esiste nella realtà costruita della città, esiste dentro gli uffici della pubblica amministrazione e quando ciò non avviene quelle cose sono abusive. Ma il fatto più eclatante è dato dalla corrispondenza della condizione delle due realtà: lo stato in cui versano gli uffici è esattamente quello in cui versa la città e viceversa. Roma è un caso di scuola in cui lo sbraco e sciatteria dell’urbanistica degli ultimi venti anni, sotto l’attacco del “ famo come ce pare a noi perché se la comannamo ” dei vari grumi di potere, lo ritrovi paro paro negli uffici dei settori tecnici e amministrativi in genere. Azzoppati, malconci, maldiretti, abbandonati, sfracellati e persi, resi incapaci di gestire alcunché, che una volontà ferrea ha reso scientemente inabili al lavoro. Che poi sarebbe controllare, coordinare, sovrintendere, ordinare e organizzare il pubblico interesse per conto e in nome del governo politico. Insomma tale la città tale l’ufficio e viceversa . Tale lo Stato tali i cittadini e viceversa…altro che futurismo…siamo al surrealismo. Perché no ?
In realtà pare che le parole del Manifesto dell’Architettura Futurista le abbia messe Marinetti in bocca a Sant’Elia (che si sarebbe mezzo smarcato… d’altronde la sua è tutta architettura monumentale). In ogni caso, l’esempio più lampante della differenza fra architettura rispettosa del paesaggio e pazzia cementificatrice è nel doppio viadotto ferroviario di Porta Cavalleggeri a Roma.
Si arriva da via Gregorio VII, e poco dopo aver visto sbucare il Cupolone ci si para davanti un mostro di calcestruzzo armato e plexiglas (debitamente ricoperto di scarabocchi spray), con accanto alcune “opere d’arte” che più che altro sembrano roba satanista riuscita male.
Appena superato l’abominio, ecco il vecchio ponte della ferrovia, costruito in laterizio prima della Seconda guerra mondiale. Ora in triste disuso (e sì che a Roma di arterie ne occorrerebbero…).
Perfino Ray Charles riuscirebbe a capire quale dei due si integra col paesaggio del Vaticano e del quartiere Aurelio-Porta Cavalleggeri con cui comincia la parte di Roma vecchia, poco prima del Tevere.
Ps. Grazie architetto per il lavoro che fa per portare avanti il rinnovamento del gusto architettonico nel nostro paese!
EM
grazie a te per l’ottimo commento!!
Aggiungerei se mi è permesso, un’altra testimonianza degna di nota per la cura nell’ordinarieta’ della sua originaria e ancora attuale funzione : il primo impianto di distribuzione carburanti di Roma, 1930 circa ad opera di Angiolo Mazzoni, situato proprio nel trivio Via di Porta Cavalleggeri – Via Aurelia- Via della Stazione Vaticana; scendendo guardandolo, si scorge alle spalle il Cupolone e subito dopo l’Aula Paolo VI. Scarti conturbanti.
Sì, quel distributore è secondo me una pregevole opera del Novecento italiano. Ed è una delle prove che il Novecento si può integrare perfettamente in un tessuto urbano tradizionale, monumentale – com’è San Pietro – o popolare, come sono (anzi, sfortunatamente, erano) la gran parte delle case e casette di Porta Cavalleggeri allora.
Non sapevo fosse di Mazzoni! Grazie dell’informazione!
Qui una foto degli anni Cinquanta, in realtà un fotogramma dal film “I Tartassati”, dove Totò ha un negozio di tessuti proprio dirimpetto a quel distributore, in un palazzo postbellico che invece non rappresenta per nulla un bell’esempio di integrazione architettonica fra vecchio e nuovo…
http://www.tototruffa2002.it/images/sampledata/09-Davinotti/1959-Tartassati_05.jpg
Esattamente