Dopo il mio articolo di ieri[1], nel quale mi sono trovato mio malgrado a dover criticare lo scritto del caro e stimatissimo amico Oreste Rutigliano, Presidente Nazionale uscente di Italia Nostra, ho avuto modo di scambiare con lui un piacevole e costruttivo dibattito che, come potevo immaginare, mi ha confermato la sua reale persona e la sua reale sensibilità, che non avevo riconosciuto nella “sua” proposta alternativa di ricostruzione del “Ponte Morandi” da me così aspramente criticata.
Esistono sicuramente una serie di punti sui quali continuo trovarmi d’accordo, punti che attribuisco all’influenza di un certo pensiero – sviluppatosi nei primi anni ’60 e consolidatosi a seguito di un insegnamento e di un bombardamento mediatico – che, nel bene e nel male, ha finito per condurre fuori strada anche menti ed animi colti e sensibili.
Questa mattina, dopo aver letto il suo ultimo messaggio e i suoi più che condivisibili scritti sull’argomento genovese antecedenti a “proposta”, ho riflettuto a fondo su quanto occorrerebbe provare a rivedere il nostro modo di relazionarci alla professione ed all’insegnamento, mostrandoci tutti più umili, onesti e, soprattutto, liberi da ideologie e pregiudizi in grado di influenzare negativamente gli altri.
Solo così facendo, infatti, ritengo possibile rimettere in discussione il ruolo di determinate figure, ritenute intoccabili ed infallibili, il cui pensiero non può più essere considerato alla stessa stregua della la Bibbia per la religione! Quel pensiero, infatti, necessita di essere analizzato e valutato caso per caso, al fine di prendere a modello ciò che di buono ha espresso, scartando gli “errori di percorso” … del resto siamo tutti esseri umani e tutti, come tali, propensi a sbagliare, non è quindi il nome di un personaggio a far sì che tutto ciò che abbia detto e fatto risulti perfetto e non criticabile!
Una lettura onesta ed asettica della storia ci insegna infatti che, se è vero che anche i grandi mostri sacri del passato, nel loro operato e nel loro pensiero, possano aver commesso degli errori, è vero anche che tante figure politicamente deprecabili – passate e recenti – possano aver prodotto o promosso opere mirabili in materia urbanistica, architettonica e artistica!
Alla luce di questo dunque, stamattina ho sentito il dovere di scrivere quanto segue:
Ho letto il tuo messaggio, nel quale ti riconosco molto più che non nella difesa della sopraelevata, ragion per cui mi chiedo ancora una volta chi possano esser stati quei genovesi che ti hanno mostrato l’affezione cieca nei confronti della stessa di cui mi hai parlato: erano essi degli architetti? O degli ingegneri? O forse ancora dei professori della Scuola Politecnica che hai elogiato? … Sicuramente non si tratta degli stessi con i quali io ho potuto interloquire, nemmeno può trattarsi degli stessi che mi hanno scritto chiedendomi di scrivere, né di certo possono essere quelli che hanno rilasciato le dichiarazioni che ho linkato nel mio articolo e che parlavano di “inquietudine” e vera e propria “paura“, nei confronti di quella strada incombente sulle loro teste. Indubitabilmente non può nemmeno trattarsi di quei genovesi che, negli anni, hanno pensato a realizzare un percorso alternativo (la gronda[2]) per il quale hanno studiato svariate possibilità, poi osteggiate per discutibili ragioni politiche mascherate da motivazioni ambientaliste e quant’altro.
La realtà è che la A7 e la A10 sono delle strette strade in sopraelevata, ergo non più considerabili delle autostrade dimensionate per il traffico che debbono sopportare; Inoltre i loro viadotti e svincoli versano in pessime condizioni strutturali – ragionevolmente simili a quelle del ponte crollato – che fanno sì che non possano ritenersi eterne e sicure, ergo che non possano ritenersi delle tratte da ricucirsi con un costosissimo (ed esteticamente violento) nuovo ponte, poiché si rischierebbe, di qui a breve, di avere un “ponte spettacolare“, senza delle strade ad esso legate! … Anche liberando lo spazio sottostante, come è stato suggerito demolendo tutte le case e facendoci un parco, il pericolo, il disagio e l’inquietudine per la gente persisterebbe!
Probabilmente ai genovesi (specie a che non vivevano al di sotto quella follia), l’attaccamento al ponte riguarda la sola comodità di avere una “scorciatoia” – rispetto ad un eventuale tragitto più ampio – alla quale giocoforza si erano abituati e della quale non facilmente possono pensare di poter fare a meno … ma non di certo si può credere che quell’attaccamento sia dovuto al fatto che vedessero quella struttura come una meravigliosa opera d’arte in cui riconoscersi!
L’occasione drammatica del crollo, agli occhi di chi non metta l’ideologia davanti alla sicurezza ed al rispetto del paesaggio, rappresenta quindi la possibilità di mostrarsi culturalmente maturi ed onesti, riconoscendo che quelle follie ipertrofiche, figlie del boom economico e delle visioni maniacali di Le Corbusier, accompagnate per la fede assoluta nella scienza (che abbiamo visto essere fallace), hanno fallito miseramente! Sicché – come ho già scritto – occorre pensare a tracciati alternativi rispettosi dell’orografia (anche a patto di essere molto più lunghi), che non richiedano delle manutenzioni che, lo abbiamo visto, i personaggi che gestiscono le autostrade non fanno, né mai faranno in maniera opportuna, perché costose e mangia guadagni!
All’estero, (per esempio quest’estate ho scorrazzato in lungo e largo per l’Inghilterra), dove i pedaggi non costano quasi nulla e spesso sono gratuiti, le autostrade si appoggiano dolcemente al terreno e, solo dove necessario, si avvalgono di massicciate o di viadotti, le cui campate ed altezze potrebbero tranquillamente realizzarsi con tecniche e materiali edilizi eterni … come possiamo vedere anche in moltissimi ponti ferroviari otto-novecenteschi nostrani.
Non si tratta quindi di ideologia o di “gusto” personale, ma semplicemente di buon senso … cosa che ai megalomani demiurghi degli anni ’60 mancava del tutto.
Quanto alla frase di Cederna[3], che ringrazio di aver citato, essa rappresenta proprio di quello che da sempre ritengo essere stato il suo più grande limite … o forse la ragione di un suo enorme fraintendimento che ancora persiste.
Sostenere infatti che «occorra limitarsi alla critica urbanistica, perché se si passa al giudizio o alla battaglia sull’architettura si entra in un mondo di valori soggettivi», è un grandissimo errore storico … oltre che un grandissimo pericolo.
Quando Cederna diceva queste cose, ovviamente, si esprimeva in funzione di quella che era l’architettura (farei meglio a limitarmi a parlare di “edilizia” più che di “architettura“) che veniva prodotta, sicché il discorso soggettivo poteva starci tutto! …
In quegli anni la dittatura ideologica del pensiero di Zevi aveva portato ad un’involuzione drammatica ed a una produzione di immondizia edilizia che gli addetti ai lavori – evidentemente incapaci di fare di meglio – apprezzavano, mentre la gente comune (quella ancora in grado di esprimere il proprio parere senza complessi di inferiorità culturale) non capiva né amava; ragion per cui, parlare di architettura rischiava di essere un discorso soggettivo … tuttavia, a ben vedere, prima di questa involuzione “culturale”, questo fenomeno non c’era mai stato nella storia dell’umanità … se non nella breve parentesi ideologica Neoclassicista e Beaux-Art nei confronti di Barocco e Medioevo!
Ma c’è di più, quella frase mostra drammaticamente le conseguenze di un vero e proprio limite culturale causato dal modo in cui – a causa di quella “dittatura” – siano state insegnate, teorizzate e professate l’architettura e l’urbanistica … tanto da portare menti eccelse come Cederna a cadere nell’errore di scinderle e guardarle come indipendenti!
Queste due discipline, in realtà, non sono scindibili! Infatti, proprio a partire da quando si è operata questa scissione, è sorto il problema del disastro sociale ed architettonico che caratterizza la città contemporanea.
Quando, in età comunale, si sono sviluppati il “concetto di città” e di “piazza” – che qualche collega “classicista” non immune all’ideologia Beaux-Arts vuol far credere esser nati molto tempo dopo, con la Piazza di Pienza – l’urbanistica e l’architettura erano considerate un tutt’uno … e così è sempre stato, fino all’avvento del cosiddetto “funzionalismo” lecorbuseriano …
Basta leggere i Praecepta Civitatis Vicentiae del 1208 o lo Statuto di Siena del 1262, o ancora tutta la miriade di documenti simili in giro per l’Italia, per comprendere che il concetto di “decoro urbano” fosse già abbondantemente definito – e unanimemente condiviso – così come è possibile comprendere che l’architettura non venisse mai scissa dall’urbanistica, in quanto quinta dello spazio circoscritto!
… Proviamo ad immaginare piazza Navona circondata da architetture incoerenti con quello spazio e proviamo a capire se il valore di quell’invaso rimanga inalterato!
Come ho già detto, quell’approccio all’architettura e urbanistica, votato al decoro ed al rispetto, si è protratto fino ai primi anni ’30, tant’è che la Relazione allegata al Piano di Recupero per il Centro Storico di Bari del 1930, elaborato da Concezio Petrucci sotto la supervisione di Gustavo Giovannoni, recitava «[…] Tra le attribuzioni del Comune e della commissione dovrà essere quella che fa capo al Diritto Architettonico, in quanto l’opera esterna non tanto appartiene al proprietario quanto alla città».
Alla luce di quanto ho scritto mi permetto quindi di affermare che, fin quando non ci libereremo della cappa che ci impedisce di rimettere in discussione i nostri “maestri” o presunti tali, verrà molto difficile riuscire a cambiare le cose e migliorare le nostre città.
Finché non avremo il coraggio di affermare che le sperimentazioni e gli sperimentatori degli anni ’60 abbiano fallito nei loro esperimenti sulle cavie umane, non potremo liberarci della loro scomoda, pericolosa e costosissima presenza.
Finché non capiremo che all’Italia non servano delle performances di archistars presunte tali, ma semplicemente umiltà, buon senso e lungimiranza da parte di progettisti e gestori delle reti viarie, ferroviarie e autostradali ci verrà impossibile impedire di ripetere gli errori del nostro recente passato.
[1] http://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2018/09/22/sulle-ipotesi-di-ricostruzione-del-ponte-di-morandi/
[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Gronda_di_Genova
[3] «Bisogna limitarsi alla critica urbanistica, perché se si passa al giudizio o alla battaglia sull’architettura si entra in un mondo di valori soggettivi. Salvo dopo anni giungere a bilanci sicuri e consolidati, come per i quartieri degli anni settanta»
Ho letto con passione il tuo articolo, e da architetto ma non solo non posso che essere d’accordo quanto dici. Da sempre appassionato di grandi strutture e viabilità, la mia tesi di laurea fu una stazione ferroviaria di testa che collegasse (lungo la valle del Fiume Irno) Salerno con Mercato Sanseverino, e non per “piacioneria” dico che il mio Prof. fu l’arch. M. Capobianco. Oggi a distanza di anni attraverso quei luoghi che da bambino vivevo con mio padre (fiero di essere un operaio delle FF.S.) , i miei occhi il mio sguardo è perso alla ricerca del luogo “loci” fra tranquillità e certezza, percorsi liberi e sentieri obbligati, colori della e dalla terra e colori riprodotti artisticamente “artificialmente obbligandoci a credere che siamo fatti così perché ce lo dicono loro “artisti-pittori-scultori e pensatori”. Perché noi piccoli incapaci dobbiamo essere accompagnati per mano come faceva mio padre con me… Già ma lui mi mostrava un luogo STORICO (oggi una brutta parola) orgoglioso di aver servito la Patria tutelando un monumento (perché questo era quello che si è distrutto) e il suo ricordo STORICO, che non potrà mai più essere trasmesso alle generazioni future,MONUMENTO e STORIA insieme ….Senza monumenti senza storia l’uomo non è più persona ,padrone di se stesso, ma di chi sa bene come occuparsene!
Per chi, come me, ha sempre considerato la città come una sommatoria di architetture, anzi un’architettura a grande scala, e le teorie urbanistiche dell’ultimo secolo una forma di paranoia (l’urbanoia), non può esserci dubbio sulla giustezza di quanto dici. Vero è (come posso testimoniare per esperienza avendo fatto i miei studi negli anni sessanta e avendo le librerie piene di testi ideologici a senso unico) che l’artificioso passaggio dal progetto (opera dell’architetto) al piano (opera del politico) è il principale responsabile dellla distruzione della città e del paesaggio.
Forse sta iniziando il tempo della resipiscenza e qualcosa potrebbe cambiare. Ma il male fatto, specialmente in Italia, sarà molto difficile da riparare, in mancanza di medici adeguati…..
Un saluto,