Con l’avvento dei primi Comuni, e con l’opera degli Ordini Religiosi Mendicanti le città – nuovamente considerate sicure – ripresero vita tornando a popolarsi.
A quei tempi, tornare a vivere in città equivaleva a cambiare radicalmente le aspettative di vita.
Quelli che in epoca feudale erano cresciuti come degli agglomerati privi di senso urbano, non prevedendo alcun luogo per la socializzazione e la vita di comunità, si andarono organizzando secondo un preciso disegno urbano che prevedeva la presenza di piazze ed edifici pubblici tutt’ora vitali! In epoca comunale le città ingaggiarono una vera e propria competizione di bellezza e di cultura che, da paese a paese, portò allo sviluppo del sano “campanilismo” che, detto con parole più consone potremmo definire “senso di appartenenza” e/o “di identità”.
Quelle città erano luoghi pullulanti di vita, e non è un caso se Ambrogio Lorenzetti, dovendo dipingere nel Palazzo Pubblico di Siena un’allegoria del “Buono e del Cattivo Governo”, decise di utilizzare l’immagine della città, realizzando uno dei cicli pittorici più significativi e riusciti di tutta la storia della pittura italiana.
In quell’opera, mentre l’allegoria del Buon Governo ritrae una città gioiosa e vitale, quella del Cattivo Governo mostra morte e decadimento.
Nonostante i quasi 7 secoli trascorsi da quel dipinto, quell’opera resta impressionantemente attuale, ricordandoci quali conseguenze sulla vita delle comunità possa avere un pessimo governo.
Il concetto di città, a seguito del massiccio inurbamento – accompagnato da una pessima politica sociale ed abitativa – conseguente la rivoluzione industriale, portò allo sviluppo della visione della città come “tentacolare” luogo di violenza e perversione.
Solo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, grazie alla nascita di discipline atte a studiare gli effetti collaterali dell’urbanistica, si riuscì a porre rimedio ai tanti errori – figli della speculazione e dell’avidità umana – che avevano causato un vero e proprio disastro sociale della città ottocentesca.
L’esempio del quartiere Testaccio di Roma, prima e dopo l’intervento di Domenico Orano e del Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio[1], è emblematico.
Tuttavia, negli anni successivi a quelle conquiste socio-ambientali, la folle visione “automobilecentrica” – promossa da personaggi come Le Corbusier e dall’industria automobilistica francese e americana – fece gradualmente ripiombare le città in una realtà di degrado della quale non se ne sentiva affatto il bisogno!
Con l’avvento dello “zoning” – ergo con l’abbandono della visione multifunzionale degli organismi urbani in luogo della necessaria mobilità degli esseri umani atta a sostenere la produzione automobilistica – le nostre città sono andate via via morendo, sebbene questo nuovo modello di città zonizzata fosse stato definito come “funzionale”.
In questi anni stiamo assistendo alla desertificazione dei centri urbani generata dal proliferare di centri commerciali, lontani dai centri abitati. Queste ipertrofiche strutture, infatti, con le loro politiche di mercato, sbaragliano ogni possibile concorrenza, portando gradualmente alla morte dei “negozietti dietro l’angolo” … ma queste assurde politiche urbane non si limitano a danneggiare i poveri commercianti, ma tutti noi, perché vengono a privare le nostre strade della loro naturale vita e sicurezza!
Infatti, già nel 1961, in Vita e morte delle grandi città Americane[2] Jane Jacobs, nel capitolo “Le funzioni dei marciapiedi”, articolato in “la sicurezza” e “i contatti umani”, diceva:
«Le funzioni di autogoverno delle strade sono tutte modeste, ma indispensabili. Nonostante molti tentativi, pianificati o no, non s’è ancora trovato nulla che possa sostituire una strada vivace e animata […] La prima cosa da capire è che l’ordine pubblico nelle strade e sui marciapiedi della città non è mantenuto principalmente dalla polizia, per quanto questa possa essere necessaria: esso è mantenuto da una complessa e quasi inconscia rete di controlli spontanei e di norme accettate e fatte osservare dagli abitanti stessi. In certe zone urbane, come ad esempio in molti vecchi complessi di case popolari e in molte strade con rapido cambio di popolazione, il mantenimento della legge e dell’ordine sui marciapiedi è affidato quasi interamente alla polizia e a guardie speciali: ebbene queste zone sono vere giungle, perché non c’è polizia che basti a garantire la civile convivenza una volta che siano venuti meno i fattori che la garantiscono in modo normale e spontaneo. Il secondo punto da tener presente è che il problema della sicurezza non si risolve accentuando la dispersione degli abitanti, sostituendo cioè al carattere urbano quello tipico del suburbio. Se così fosse Los Angeles dovrebbe essere una città sicura».
Ed ecco il punto:
«Tutti sanno che una strada urbana frequentata è probabilmente anche una strada sicura, a differenza di una strada urbana deserta. Ma come vanno effettivamente le cose, e che cosa fa sì che una strada urbana sia frequentata oppure evitata? Perché viene evitato il marciapiede di Washington Houses, che dovrebbe costituire un’attrazione, e non i marciapiedi della città vecchia immediatamente adiacente? Che cosa avviene nelle strade che sono animate in certe ore ma ad un certo punto si spopolano improvvisamente?
Per essere in grado di accogliere gli estranei e di approfittarne per accrescere la propria sicurezza, come sempre accade nei quartieri più vitali, una strada urbana deve […] essere sorvegliata dagli occhi di coloro che potremmo chiamare i suoi naturali proprietari. In una strada attrezzata per accogliere gli estranei e per garantire lo loro sicurezza e quella dei residenti, gli edifici devono essere rivolti verso la strada; non è ammissibile che gli edifici lascino la strada priva di affacci, volgendo verso di essa la facciata posteriore o i lati ciechi. […] I marciapiedi devono essere frequentati con sufficiente continuità sia per accrescere il numero delle persone che sorvegliano la strada, sia per indurre un congruo numero di residenti a tenere d’occhio i marciapiedi dagli edifici contigui. A nessuno piace starsene seduto sul terrazzino d’ingresso o affacciato alla finestra a guardare una strada deserta (e infatti quasi nessuno lo fa), mentre c’è molta gente che si diverte a dare di tanto in tanto un’occhiata a ciò che avviene in una strada animata.
[…] Condizione essenziale per attuare tale sorveglianza è che lungo i marciapiedi del quartiere sia disseminato un congruo numero di negozi e di altri luoghi pubblici, e in particolare di esercizi e luoghi pubblici frequentati nelle ore serali e notturne. Così soprattutto i negozi, i bar e i ristoranti possono favorire in modi diversi e complessi la sicurezza dei marciapiedi».
È incredibile quanto matura e attuale fosse questa lettura critica della città funzionalista, già agli albori della scriteriata urbanistica “moderna”! … Ma non è incredibile il fatto che a scriverlo non sia stato né un architetto, né un sociologo, bensì una giornalista illuminata. L’attualità di queste parole dovrebbe essere un monito per chi continui a pianificare la città in zone monofunzionali dove la vita non è di casa.
Non è possibile che, credendo di “fare cassa”, le Amministrazioni Comunali rilascino concessioni edilizie per la realizzazione di centri commerciali i quali, come conseguenza, portano alla morte delle nostre città!
Gli oneri concessori incamerati da quelle concessioni, infatti, coprono una percentuale insignificante delle spese pubbliche necessarie per poter realizzare – e tenere in vita – le infrastrutture indispensabili per poter far funzionare questi luoghi nemici della vita!
Finché non
comprenderemo l’importanza delle parole di monito lasciateci dalla Jacobs,
finché non comprenderemo l’importanza di rimettere l’uomo al centro della
pianificazione urbana, finché non impareremo a fare autocritica, riconoscendo
che quella che oggi definiamo periferia disfunzionale e insostenibile, è
proprio quel tipo di urbanistica che ci venne presentata come “funzionale”, non potremo che rassegnarci
ad assistere alla progressiva morte delle nostre città!
[1] Cfr. Ettore Maria Mazzola – The Sustainable City is Possible – La Città Sostenibile è Possibile, Gangemi Edizioni, Roma,2010
[2] Tradotto e pubblicato in Italia nel 1969 a cura di Einaudi.