Alle 18,13 del 9 gennaio u.s., la sindaca Virginia Raggi, sulla sua pagina FB ha scritto:
«Le archistar tornano a scegliere Roma. Norman Foster ha disegnato la nuova sede della Apple in un edificio storico della città, Palazzo Marignoli, tra piazza San Silvestro e via del Corso.
È sempre più vicina l’apertura del nuovo flagship store Apple che sarà ospitato nello storico stabile e che darà lavoro a 120 persone. Un’ottima notizia per il tessuto economico della Capitale e per l’occupazione. Un palazzo nel cuore della città da tempo inutilizzato tornerà a vivere, grazie a investimenti privati e a un progetto di ristrutturazione che rispetta elevati standard di qualità.
L’intervento, firmato dallo studio dell’architetto Norman Foster, ha riservato particolare attenzione agli interventi di conservazione e riqualificazione. È previsto anche uno spazio culturale che ospiterà eventi e workshop.
Il progetto di ristrutturazione ha visto la collaborazione dell’Amministrazione e delle Soprintendenze. Ringrazio gli assessori Luca Bergamo e Carlo Cafarotti Assessore Sviluppo Economico, Turismo e Lavoro di Roma per il lavoro svolto.
È un tassello importante della rigenerazione urbanistica della città e un segnale importante per il rilancio degli investimenti nella Capitale».
Non ho parole per definire il mio sdegno nei confronti di queste affermazioni, irresponsabili … o forse sì!
La sindaca – pentastellata per finta – farebbe bene a contare fino a dieci o, ancora meglio, a documentarsi, prima di elogiare l’interesse delle “archistars” per il centro di Roma, sì da rendersi conto del fatto che, gioire di certi interessi, equivalga a gioire dell’interesse della Monsanto per le coltivazioni organiche sul nostro territorio, o entusiasmarsi dell’affidamento della sicurezza di un asilo ad un pedofilo!
La sindaca, se davvero animata da quelli che furono gli ideali pentastellati che la portarono a vincere le elezioni, dovrebbe riflettere sugli errori, devastanti, in materia urbanistico-architettonica, dei suoi predecessori (Rutelli, Veltroni, Alemanno e Marino) i quali, per “fame di fama”, hanno consentito la realizzazione di mostruosità fallimentari che hanno portato l’elettorato a bannarli!
L’uso dell’architettura a scopo di propaganda infatti, ha portato e porta i nostri politici a spingersi in pericolosissime acrobazie pseudo-culturali che, alla fine dei giochi, non solo non portano alcun beneficio alle città ma, nella stragrande maggioranza dei casi, portano ad un impoverimento culturale e perfino al collasso finanziario!
La sindaca farebbe bene a dare ascolto, non solo ai suoi assessori e consiglieri (lontani anni luce dagli ideali iniziali, perché intimamente legati alle giunte precedenti), provando a leggere, o se lo sforzo risulti eccessivo, ad ascoltare cosa abbiano da dire gli architetti, gli storici e i critici dell’architettura intellettualmente più onesti di chi parli per interesse personale (mai farsi nemici quelli che possono tornare utili) o per mere, patetiche ed ignorantissime ragioni ideologiche!
Prima di passare in rassegna una serie di immagini emblematiche del “rispetto” nei confronti dei siti in cui si sono trovate ad intervenire delle archistars, vorrei per esempio far conoscere alla sindaca esultante, quello che – in un articolo dedicato all’intervento alla “Collina delle Fratte” di Salerno – il prof. Arch. Alberto Cuomo ha detto di una delle più sopravvalutate archistars nostrane.
«Di solito non scrivo qui di architettura, oggetto specifico dei miei studi. E però, leggere altrove articoli ameni su alcuni progetti per la nostra città non può non sollecitare la mia reazione. L’ultimo servizio in ordine di tempo ha riguardato l’inverecondo progetto di Massimiliano Fuksas collocato nell’ampio taglio di un pezzo di collina a Fratte […] Nel 1967 Renato De Fusco, […] metteva in luce come questa (l’architettura n.d.r.) oltre i valori estetici e funzionali, possedesse capacità comunicative analoghe a quelle dei mezzi di comunicazione di massa, tanto da poter essere considerata a sua volta un mass medium. La diagnosi era tanto vera che oggi molti politici […] utilizzano le costruzioni architettoniche griffate quale mezzo di propaganda rivolto ad enfatizzare la propria azione. […] l’intervento di fatto stupra a Fratte un lotto scosceso, consono ad altri usi che non quelli edificatori, mediante un inverecondo sbancamento onde elevare squallidi parallelepipedi speculativi, di cui uno curvo, i quali, privi di ogni ricerca in campo tipologico o statico, tentano banalmente, nel rivestimento di pannelli in resina verde-pisellino, di distinguersi dagli edifici al contorno a tentare il mercato. Sdoganato dalla sinistra dal grigio panorama degli “incompresi”, Fuksas, un mediocre progettista con qualche realizzazione in Francia, si distingueva particolarmente per lo sputare sentenze contro l’accademia italiana, rea di averlo bocciato nei concorsi universitari, dove presentava pubblicazioncelle senza valore. Di sé dice di aver partecipato al sessantotto, ma in molti lo ricordano ondivago e, principalmente, violento. Rientrato nel mercato italiano grazie a significativi incarichi pubblici, giunto alla notorietà internazionale, come archistar di secondo ordine, si è probabilmente sentito libero di dare sfogo ai suoi risentimenti, scagliandosi contro […] gli stessi italiani, definiti incolti ed ignoranti, distinguendosi spesso in televisione per le errate citazioni latine ed i vistosi svarioni. Unendo le alte parcelle ai clamorosi fallimenti dei suoi progetti, tra i quali la famosa “nuvola”, un’accozzaglia di putrelle costosissima e priva della promessa leggerezza […]».
Cara sindaca, prima di andare avanti col “j’accuse”, mi preme informarla che – cosa che probabilmente né lei, né i suoi illustri collaboratori potete sapere – il suo amato ed entusiasmante Sir Norman Foster, è quel personaggio il quale, all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, denunciò Léon Krier per essersi permesso di pubblicare, in un articolo intitolato ‘Virtus privées et vices publics[1]‘, le immagini – oscene – delle realizzazioni di personaggi come Foster e compagni, confrontate ai luoghi – meravigliosi e storici – in cui vivevano e lavoravano! L’obiettivo di Krier era quello di mostrare l’ipocrisia di questi nihilisti (quando si tratti di intervenire con i soldi degli altri in luoghi per gli altri), sempre conservatori quando si tratti di scegliere il luogo in cui vivere e lavorare. Un esercizio facilissimo da svolgere ancora oggi, partendo dal palazzo, splendido, di piazza del Monte di Pietà, dove svolge la sua attività l’archistar nostrana, autrice della Nuvola e dell’abominevole bubbone in vetro sull’edificio della ex Unione Militare, accanto alla chiesa di San Carlo al Corso!
E allora, per rammentarle ancora meglio quanto il suo “sogno” possa trasformarsi in “incubo” per il resto della popolazione, partendo proprio dal “delicatissimo” intervento di Fuksas accanto a San Carlo al Corso, dia un’occhiata a questa carrellata d’immagini che avevo messo insieme per una conferenza organizzata dal “Salotto Romano” lo scorso anno.
Cara sindaca e cari assessori e consiglieri che decidete il futuro di Roma e auspicate l’intervento delle archistars, se questa breve ed incompleta carrellata non è bastata a darvi un’idea della mancanza di rispetto dei luoghi e della gente da parte di questi individui autoreferenziali, vi sottopongo anche queste due immagini parigine che, da sole, dovrebbero aiutarvi a riflettere sul pericolo derivante dalla fiducia riservata a dei personaggi subdoli i quali, con giri di parole atti ad infinocchiare i polli come voi, vogliono far credere di preoccuparsi per il bene comune e la qualità della vita, mentre nella realtà si interessano solo alla promozione del proprio ego.
Tanto per chiarire chi sia, cosa abbia realizzato, nonostante l’ipocrisia delle sue affermazioni, l’archistar tanto amata dal suo “leader massimo”, Beppe Grillo – suppongo per mere ragioni campanilistiche – il senatore a vita Renzo Piano, oltre ad aver vergognosamente infranto la deontologia professionale in occasione del presunto “dono” del progetto “cotto e mangiato” a poche ore dal crollo del Viadotto Morandi di Genova, è quell’architetto che, nel 1998, nel ricevere il Pritzker Prize, ipocritamente dichiarò:
«L’architettura, intanto, è un servizio, nel senso più letterale del termine. È un’arte che produce cose che servono. Ma è anche un’arte socialmente pericolosa, perché è un’arte imposta. Un brutto libro si può non leggere; una brutta musica si può non ascoltare; ma il brutto condominio che abbiamo di fronte a casa lo vediamo per forza. L’architettura impone un’immersione totale nella bruttezza, non dà scelta all’utente. E questa è una responsabilità grave, anche nei confronti delle generazioni future[2]».
Ebbene la nostra archistar, prima di vestire i panni del “rammendatore di periferie” che si preoccupa del “brutto“, potrebbe andare a chiedere cosa pensino dei suoi edifici gli abitanti ai quali è stata imposta la vista del “Beaubourg” e della Fondation Pathé!
Ma c’è di più.
Lei, cara sindaca, si esalta parlando dell’interesse delle archistars per Roma e per la possibilità di ridare vita a degli edifici del centro grazie alla realizzazione di questi, immondi, flagship stores ed è convinta che, nel caso di Palazzo Marignoli, si tratterà di un “progetto di ristrutturazione che rispetta elevati standard di qualità” … ebbene, se non è in grado, e con lei i suoi assessori e consiglieri, di rendersi conto che tra le parole dei venditori di fumo e la realtà possa esserci un abisso, vada a farsi un giro, con occhio critico, nell’immondo flagship store della Rinascente in via del Tritone. Anche lì, infatti, si è parlato – come al solito – di elevati standard di qualità e di sostenibilità, tuttavia, come ebbi modo di spiegare in un mio articolo specifico[3] che invito a leggere, quella vergogna rappresenta l’ennesima, insostenibile, bugia, deleteria sotto tutti i punti di vista.
Detto questo, visto che anche grazie al fallimento della sua
giunta il M5S che ci aveva fatto sognare si sta estinguendo, se proprio non
riuscite a comprendere i danni che avete e che rischiate ancora di produrre alla
Capitale e al vostro Movimento, per il bene della nostra città, fatevi da
parte!
[1] Léon Krier, ‘Virtus privées et vices publics‘, “Bulletin des Archives d’Architecture Moderne n°18 (1980), pagg. 7– 12 (the London scene)
[2] https://www.repubblica.it/online/cultura_scienze/renzopiano/premio/premio.html
[3] http://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2018/02/17/i-professionisti-dellipocrisia-rigenerazione-riqualificazione-sostenibilita-unimmensa-presa-per-i-fondelli-negli-interessi-della-speculazione/
Ho letto non solo ma ho visto.
Ho visto, vermi di acciaio strisciare sui tetti, tartarughe con guscio d` aluminio, virus ciclopici, edifici storici subire pugni diretti, ho visto…. Ma cosa vi succede e lasciate questi stronzi a distrugere la vostra unica e straordinaria citta`?
Grazie professore, sei sempre un elefante nel salotto.
Fotio
Questo, a Roma, ci è capitato in sorte quando, disgustati e stremati dalle precedenti Giunte Criminali capitoline, abbiamo dato fiducia a una setta d’invasati, perché questo si sono dimostrati, privi di un sapere generale e profondo che li orientasse verso scelte urbanistiche nell’interesse pubblico e non asservirsi a quelli delle chimere dei privati i quali, d’altronde, si erano per tempo ben infiltrati nel corpo “informatico” dell’illusione a 5 stars ! OK. Ricominciamo da capo !
…ora, quest’accozzaglia d’inetti che amministra la Capitale quello che tocca distrugge, non sapendo nulla dei problemi che, con la superbia degli ignoranti, vorrebbe risolvere. Le velleità degli invasati si sono trasformate negli errori degli analfabeti, di cui approfittano i grassatori e incantatori di sempre. Come quando per dare “status” alle vicende della Stadio di Pallotta, si acquisirono gli alti servigi di Lanzalone, come a dire : un faccendiere di alto profilo ce l’abbiamo pure noi ! Alla faccia della rivoluzione !
caro non dimenticare il Crescent, vero mostro di Salerno
verissimo!!!!
Caro Ettore, la sindaca (o sindachessa, per dirla in italiano) si bea delle archistar, dei flagship store, dei workshop e degli abusati termini ostrogoti con cui la stupidità crede di ammantarsi di cultura e di modernità, e festeggia il ritorno d’interesse delle archistar per la città…… Non si rende conto che semmai, sarebbero le archistar a dover gioire per la possibilità che gli si fornisce, di operare nella ex- Caput Mundi. Ma così è: ormai Roma, né più né meno che Milano, Francoforte, Riad , Taipei et similia, non aspira ad altro che a diventare una delle tante brutte copie di New York. Una tale aspirazione offenderebbe un Parigino o un Londinese; il sindaco romano invece, anche se scrive Capitale con la C maiuscola, si illude di promuovere la città a un livello superiore, di sprovincializzarla, di riscattarla dal ruolo di periferia del mondialismo cultural-finanziario che irraggia da oltreatlantico.
Questo per la sindaca. In quanto alle archistar, da architetto contemporaneo e ammiratore dell’architettura contemporanea (quella che lo merita) quale sono, non posso che imputare a questi affaristi travestiti da architetti la deleteria influenza che le loro opere (e le loro chiacchiere ancor più) hanno prodotto sull’architettura contemporanea e sulla percezione di essa, oggi generalizzata nell’opinione pubblica,cui è stato fatto intendere che le mostruosità sparse per il mondo esprimano – esse sole – il concetto di “architettura contemporanea”.
Poveri Romani, passati dal Colosseo al Maxxi…….
parole sante!!!!
Siete solo degli ignoranti presuntuosi che non capiscono nulla e pretendono di dare giudizi su opere di grande valore che in qualsiasi altra Capitale “abiterebbero” con grande dignità.
l’unico ignorante e presuntuose sei tu, con questo commento becero.
Faresti bene a spiegarci la bellezza dei costosissimi abomini elencati, oltre che i vantaggi economici per la collettività, visto che, nelle totalità dei casi, c’è stato spreco di denaro pubblico, in molti casi condannato e passato in giudicato, mentre in altri semplicemente insabbiato.
Se a te questo va bene è vergognoso.
PA
Se lamenti in fatto che queste presunte “opere di gran valore in qualsiasi altra capitale abiterebbero con grande dignità”, puoi felicemente emigrare verso quelle capitali! La differenza con quelle “capitali” è che loro, nella stragrande maggioranza dei casi, possono solo sognare la nostra, per quanto bistrattata da una classe politica ignobile che, negli ultimi 30 anni e più, non ha fatto altro che umiliarla!
Vergogna, Ettore! Siano degli ignorantoni incapaci di “capire”……. Bisogna fare qualcosa; per mio conto, ho deciso che a settembre mi iscriverò di nuovo alle Elementari, per cercare di riportarmi al livello del professore…..
caro Claudio,
ricominciare a studiare oggi potrebbe farti incappare in cose strane, come per esempio quello che, per patetiche ragioni di “politicamente corretto”, ha portato la Yale University a decidere di eliminare i corsi introduttivi alla storia dell’arte rinascimentale “perché troppo bianca, etero, europea e maschile”.
Meritiamo di estinguerci miseramente!
Copio ed incollo dalle riflessioni di un architetto del tempo che fu…un pezzo lungo ma denso di contenuti….speriamo possa servire a qualcuno….
“La catastrofe del senso…
La continua produzione di valori, la distruzione degli antichi, il cambiamento elevato a regola fondamentale della vita costituiscono il profilo del modernismo architettonico e culturale che oggi, anche se si segnala come grande gesto di vitalità , al contempo,si espone al rischio non infrequente di essere succube di come vanno le cose..
Partito dalle vette della metafisica, il modernismo ha condotto e conduce, più o meno intenzionalmente, alla decostruzione del concetto di natura ( verum e factum di vichiana memoria )
Modernista non è colui che ha sgombrato il campo ad inutili e leziosi reperti di un mondo che non c’è più ma colui che non crede a quanto è: a quanto può vedere con i sui occhi; non crede al verum ed al factum riscontrabili nella realtà. Ovvero crede ad una sottospecie di verum od factum riferita ad ogni singolo individuo ad ogni architetto. Seppure implicitamente, egli disdegna il “soggetto collettivo” il “noi” che considera piuttosto un’indebita ingerenza od astrazione; uno scherzo sinistro del caso.
Nega perciò fede alle evidenze, chiuso nel suo universo personale di sfide, di volontà, di novità; nega fede a questa grande costruzione collettiva che è la civiltà ed il territorio.
Nel modernismo si abbonda, per difetto e per eccesso, di ragione sfogando una forma perniciosa di razionalimo assoluto che sacrifica duramente la realtà ad una vuota formula logica in cui l’architetto impersona la Ragione che rigetta nell’assurdo e nell’irrazionale tutto ciò che non quadra con la sua misura formale.
Ad appoggiare questa tendenza è la svolta di origine “debolista” che intende farla finita con la gnoseologia realistica ( verum = factum ) per affidarsi alla teoria che tutto è interpretazione; ma se tutto è interpretazione non resta nulla che stia fermo; saremmo perciò alla ronda bacchica in cui tutti sono ubriachi; od al teatro magico il cui prezzo d’ingresso è il cervello. D’altra parte anche quest’ultima svolta non può sfuggire alla regola impostasi; è solo un’ennesima interpretazione in più: non può avanzare alcuna pretesa particolare e, meno che mai, definitiva tale da poterla confrontare con altre, in altre occasioni, con altri soggetti; non si presta a diventare un patrimonio o prassi comune.
Decade quindi a un fatto puramente intimo: una sorta di dialogo continuo e segreto tra l’io e la divinità… od il nulla .
Disciplina formalmente ammirevole, giacchè questo atteggiamento contiene una buona dose di fascino, ma che in fondo sollecita e fomenta l’illusione del “io” in un contesto da attribuirsi invece al “noi” della società umana.
In tal senso è profondamente immorale.
Per il modernista il transito per queste gole non è facile; spesso non si tratta di fantasie di uno sciocco ma dell’esito di una profonda crisi scettica che vede la realtà come entità irraggiungibile e si sfarina in un infinità di interpretazioni situate e variabili in cui si riflette l’impenetrabilità del mondo e l’arbitrarietà del progetto e che infine rinuncia all’idea stessa di verità considerando questa condizione non alla stregua di un ospite inquietante ma una condizione cui adattarsi gaiamente.
Peggior sorte tocca a tradizioni e culture tramandate di cui non è in grado di stabilire verità e conformità all’essere reale: ragion per cui l’opera non potrà mai sporgersi otre la temporalità e la finitezza e di queste ultime e potrà definire solo ciò che egli stesso produce.
Se questa è l’autentica natura del modernismo rimane un riduttivo equivoco intenderlo come un attestato, un riconoscimento alla contingenza umana; che è talmente evidente, e ci circonda da tutte le parti che non abbisogna certo di riconquiste; non si riconquista l’ovvio e l’evidente.
Con un audace ribaltamento dei termini l’architettura, più che un mezzo per realizzare qualcosa, è diventata il fine: qualcosa che oggi non c’è ma che va raggiunto nel futuro; l’architetto moderno si mostra , e spesso lo è, aperto al divenire non perché si attenda la realizzazione di uno scopo ma in quanto questo sarà altro e diverso: mutato rispetto al precendente.
Le ultime tendenze della critica architettonica hanno creato, su tali basi, un modello (.. o mito…forse…) alquanto surreale dell’architettura moderna intesa come età della ragione “forte” in cui il progetto ha accesso al fondamento ( …geometrico soprattutto… ) e l’architetto migliore sta saldo in esso avviando un’epoca di auto legittimazione: si tratta però di una schema di comodo: cercando di recuperare alcune importanti opere o fatti marginali del moderno appena trascorso, trascura, colpevolmente, il premoderno od il classico: questa omissione intellettuale e storiografica pesa come un macigno sull’assunto sottraendole verità e persuasività. Quindi, nonostante tutto non nasce dall’avvento di un nuovo sapere che ha sostituito, soppiantato l’antico, anche se lo vorrebbe far credere affermandolo ad ogni più sospinto, dal momento che l’uomo, il territorio, le necessità, le relazioni, le ambizioni sono rimaste sostanzialmente le stesse ed i cambiamenti introdotti, le notevoli forzature tentate, non sono in grado di competere con le forze della natura che hanno disegnato le pianure, le montagne il corso dei fiumi, il clima e le risorse, e quindi la storia e le popolazioni che le abitano, bensì dal superficiale e semplificato approccio ad esse; negligenza e leggerezza che inevitabilmente conducono al rifiuto e all’esclusione del “verum” creando il vuoto esistenziale.
Una alienazione cui i più reagiscono con rassegnazione, con applicazione ed in maniera totalmente casuale affidandosi ad improvvisi scatti di “creatività” volti al fallimento per l’infondatezza delle basi.
Il sapere non è un oggetto perfettamente “cosale” un oggetto inanimato cui accedere tramite studio, controllo, manipolazione e dominio; piuttosto una costruzione complessa, sedimentata e razionale cui non è estraneo il sentimento ( …comprensione intuitiva ed immediata… ) dei luoghi che appare sufficientemente aderente e modellata sugli uomini ed sulle risorse disponibili; aderente alle inclinazioni culturali ed in ultimo al corretto rapporto tra energie e/o risorse spese e risultati ottenuti.
L’occasione l’ha fornita il grande dispiego di risorse negli ultimi 60 anni dall’improvvisa ricchezza, il più delle volte presunta, ipotecata, pensata, calcolata a tavolino o semplicemente auspicata, che presuppone una organizzazione strutturatissima fin nei minimi particolari e quindi particolarmente impegnativa nonché le indefinite quanto indefinibili prospettive di sviluppo economico, tramontate le quali si rilevano inutili quando non dannose.
L’approssimazione avviene anche per difetto quando si crede che la ragione pratica, quella umana, è considerata tanto incapace da non poter far altro che camminare nell’errore. Magari per approssimazioni successive in un continuo andirivieni di intenzioni.
Da tempo prevale questa seconda forma. Dove la realtà è compresa come muta, estranea ed al limite ostile. Prevale il volontarismo ed il decisionismo; l’io in cui la frenetica attività intramondana sono la contropartita del fatto che l’architetto è spaesato, delocalizzato rispetto ad ordine e misura che non sono “dati” ma eventualmente (…nell’occasione più propizia..) instaurati mediante un colpo di forza esistenziale da se stesso o da altri più abili o fortunati.
Questa incommensurabile mancanza di fini e motivazioni portano inevitabilmente alla catastrofe del senso; si spegne l’orizzonte veritativo comune (…il factum…) ed emerge, prepotente, la categoria della “progettualità” della produzione, della ricerca come valore assoluto; della tecnica.
Tutto può e deve essere progettato.
Un rapporto siffatto con il mondo è, inevitabilmente, teso e conflittuale. Con la leva di un malinteso senso dell’”impegno” si coltiva una smisurata volontà di im-porsi di cambiare le essenze. Volontà inane perché si illude di agire sull’ambito del necessario (…quale è quello delle essenze…) ma assolutamente pericolosa (…nel piccolo della nostra disciplina…) perché infiniti disastri provengono dal tentare l’impossibile.
Qualsiasi cosa può diventare architettura se una volontà precisa e determinata, supportata dalla tecnica, dalla politica e dalla finanza lo vuole.
Mitili, espettorati di plastica, palloni gonfiati -e la casistica è ben più ampia- si accostano a quanto realizzato in millenni di vita trascorsi attenti al territorio ed il mondo.
Il più pesante è stato messo sopra, sotto, a traverso, a sinistra, a destra senza porsi alcun problema; il miracoloso linguaggio costituito dagli elementi costruttivi classici è stato cancellato o gonfiato smisuratamente fino al parossismo.
Con essi l’addio definitivo alla ragion pratica, la tradizione, la saggezza delle generazioni passate. L’immensa area della prassi comune è abbandonata a se stessa in un processo a due tappe. Dapprima si nega ogni carattere conoscitivo e normativo cercando però un qualche metodo di stabilizzazione nell’ambito dell’agire tramite procedure e formalismi da leguleo o farmacista: poi anche la forma salta e lascia il campo aperto al divampare del volere che, qualunque esso sia, diviene il valore più alto.
Comune alla scienza è il concetto di proton pseudos secondo cui è possibile raggiungere la verità con un processo meramente logico. Una sorta di identità tra logica e metafisica secondo cui l’automovimento logico del progetto è identicamente lo sviluppo del reale: dell’edificio e della città.
Un equivoco primordiale che non fa mai uscire dalla sfera del mero pensiero logico per attingere la realtà.
Si tratta, ahime !, dell’iperlogicismo o iperrealismo che popola il discorso di essenze inventate o citate ad hoc e che esistono solo, nella mente di chi le crea, per puntellare in qualche modo il sistema.
Qualcuno potrebbe pensare che nell’incessante divenire dell’architettura nel produrre e distruggere correnti, ambizioni, idee ecc.ecc. sia possibile tener fermo qualche aspetto del metodo. Ma l’architetto veramente moderno e coerente non lo permette: dopo aver congedato i contenuti si disfa agevolmente anche del metodo; e non senza buone ragioni da parte sua: nessun atteggiamento nessun metodo possono tenere unita una disciplina di cui non sono più noti oggetto, valore, fine e che fatalmente si sparpaglia in tante direzioni contrastanti . Quello meno coerente resiste sul metodo e sulle procedure. Affidarsi ad una procedura significa puntare non su contenuti ma su regole di progettazione/produzione della progettazione/produzione.
Decidere come si deve progettare: l’architettura decade a tecnica progettuale a procedura formale che mettendo a disposizione un itinerario di metodo produce un effetto: un brano di architettura.
In tal modo si è pronti ad accogliere i più svariati contenuti.
La critica al modernismo non dovrebbe essere portata sul piano della vita (… intesa in senso indifferenziato…) perche anche il modernismo può in qualche modo essere un vitalismo ma sull’unico versante che conta che è quello veritativo.
Il modernista è in fine uno storicista per necessità che ritiene non si possa uscire dal mondo storico contingente: è il primo sostenitore e convinto assertore del refrain che circola sottotraccia : “ dopo X non è più possibile che…”; trattasi dell’accettazione possibilista del fortuito ed occasionale ed è la sola risposta davanti al tramonto di antiche o sopite unità. II pregio fondamentale che gli architetti moderni riconoscono a tale atteggiamento è la virtù liberatrice del divenire e del progresso che esalta la responsabilità della decisione; popola il modo di scopi e volontà militanti di impegno civile; prescrive all’architetto di chinarsi sull’oggetto consuma e valuta il peso della tradizione , fa risplendere la purezza della forma e del progetto.
Ma se anche il progetto procede dal divenire non vi è motivo per cui non entri nel girotondo.
La dialettica è perciò senza speranza: un nuova tendenza caccia quella vigente sino a poco prima, in una produzione a getto continuo, di cui non è noto il fine o la fine, e che difficilmente potrà esibire i criteri teoretico-pratici d’appoggio in virtù del fatto che tutto sta nel tutto e che l’architettura è una forma dell’esistenza che non può mostrare una assoluta indipendenza metodologica dal resto ma, come attività umana, contrae debiti sia con le numerose altre attività e discipline sia con la concreta vita del contesto civile che non è, bisogna comunque sottolinearlo, solo quello degli ultimi 80 anni ma fa positivo riferimento ad epoche più remote.
Resta il pathos di un’intelletto inebriato dalla fascinazione della novità e dalla ricerca che fatica ad incontrare la vita reale.
Questo perenne movimento dell’uscire e rientrare nel niente è un disguido che si paga carissimo perché porta fuori strada sin dall’approccio.
“Questa è appunto la modernità !” …viene detto. Un inno al divenire; ad essere aperti e cogliervi confidenti occasioni.
Ma questo è appunto lo storicismo: essendo andate le cose nel senso della dissoluzione di stabilità, verità e certezza dobbiamo accogliere l’esito ed acconciarsi ad esso. Storicismo della più bell’acqua che non trovandosi più niente in mano è denotato, in ultima istanza, dalla mera accettazione della continuità del processo storico come ultimo valore. In questo quadro in grande movimento dove trovare le fondamenta ?
Nihil volitum nisi precognitum.
Una contraddizione insidia al tallone l’architetto moderno: vorrebbe inaugurare una storia di libertà e creatività ma non ha basi reali a cui fare riferimento; verso chi o che cosa essere responsabili se tutto è stato sdegnosamente gettato all’ortiche ? Residua unicamente la volontà di cambiamento, la progettualità, continua avvitata su se stessa che per propria natura non è solida ed è piuttosto un affidarsi al divenire che una realtà condivisa e dotata di senso.
Senza tener conto di questa massima l’architetto moderno si trova su un palcoscenico mobile che in un attimo può volgersi verso il contraddittorio e l’assurdo in ragione della fatale negligenza in cui viene lasciato l’atto del conoscere ; ovvero almeno la metà dei problemi. Sarebbe un procedere alla carlona ed a buon mercato ritenere che alla fine tra spinte e controspinte qualcosa si aggiusta.
La cultura architettonica è destinata all’in-significanza od alla catastrofe se non è strutturata, vivificata, tenuta in piedi da qualcosa di più alto e diverso dalla volontà e dall’inclinazione dei singoli individui per quanto importanti e di spessore.
In questo contesto vige ancora la legge di Comte che stabilisce tre grandi fasi della cultura umana: dapprima teologica, poi metafisica, ed infine (… e definitivamente a quanto sembrerebbe…) scientifico tecnologica. L’avvento di quest’ultima segnerebbe la fine “irrevocabile” delle precedenti.
Saremmo arrivati alla fine delle tribolazioni, all’agognato traguardo, alla fine della storia. Tutto ciò che à stato il verum o meglio il factum, dipenderebbe da variabili e contingenze che non ritornano più. Ciò spiega la tendenza irrefrenabile dello storicismo relativista a mettere da parte gli antichi e consolidati valori pensando di trovarne o produrne di nuovi volta a volta accettabili .
Il gioco funziona fino a che ci si rende conto che non è più possibile inventarne di nuovi ed allora si presenta impietosamente il dilemma: riprendere contatto con gli antichi valori o gettarsi nelle braccia della prima contingenza a portata di mano diventando l’apoteosi della variabilità. Nello storicismo si esprime l’idea che il recente e l’attuale sia meglio del passato e che il fluire del tempo sia di per se creatore di valori. Il superamento di questo ingombrante passato è avvenuto, come spesso avviene, per sentito dire, perpetuando una non lodevole tradizione fatta di assiomi ripetuti all’infinito, senza un vero riesame dei fondamenti, riconsiderazione che esige di lavorare non solo sui libri, sulle riviste, sulle biografie di architetti illustri o sconosciuti, sull’individuo, ma di interrogare la realtà, gli uomini tutti, rimanendo aperti all’ascolto
Quanto sopra accennato accade puntualmente quando si offre il processo storico come prova di verità. Ad affinare questa affermazione si può osservare che la mutevolezza è spesso apparente ed è sempre possibile rintracciare principi comuni e non mutevoli; a patto , però, che non si passi al rullo compressore della ragione geometrica ed universalizzante tutti i dati storici ed etnologici.
Contro questo impiego ipertrofico della ragione astratta ed “esprit de geometrie” l’unica ancora di salvezza è ancora l’architettura tradizionale; ovvero l’ “architettura naturale”:
Una regola ed una misura oggettiva, quasi un ordine vincolante, che viene prima delle intenzioni o delle imposizioni del progettista.
Concorre alla sua definizione lo stato fisico dei luoghi; la materia con cui sono fatti i suoi edifici,le sue città, i suoi campi.
Si pone sempre come massimo risultato ottenibile con il minimo dispendio d’energie a disposizione proponendosi di superare la contingenza dell’oggi per essere utile anche alle generazioni future in cui si riconosce e si affida.
Interessa, per ciò, le inclinazioni naturali dei luoghi e degli uomini pur senza indicare, con determinazione e precisione, come agire: come progettare o costruire un edificio od una città.
Quasi un sentimento; probabilmente quel sentimento dei luoghi e delle cose cui spesso si allude senza essere in grado di precisarlo. Un sentimento comune che l’appartenenza ad un preciso ambito culturale e fisico descrivono con un sistema di segni, un linguaggio, che non può non essere espresso e condiviso, pena la sua estraneazione, dall’ecumene di provenienza.
Non è annullamento dell’individuo nella specie ma ricerca di universalità; non strappa l’uomo dal suo luogo naturale e dalle sue forme di vita, mutevoli secondo i luoghi ed i tempi, non disprezza consuetudini consolidate e felici e nell’intento di raggiungere lo zoccolo comune dell’uomo apre possibilità concrete di dialogo e convivenza.
L’universalità dell’architettura naturale è quindi ben diversa dalla globalizzazione tecnologica ed economica che omogeneizzano, ma non universalizzano, cancellando l’enorme ambito delle differenze. Se così non fosse non costituirebbe più un’inclinazione ma una norma precisa la quale escluderebbe inevitabilmente qualcosa prescrivendo il come ed il perché, il quando e, con buona probabilità, ricadrebbe nelle ristrettezze della contingenza storica.
Quindi un principio d’azione, uno schema dinamico, che non impone, dall’alto vetera novis augere , ma che non si è mai chiuso, e neppure lo farà mai, alla novità ed al progresso misurandoli alla prova del tempo: non il tempo dell’individuo ma quello della comunità. E’ creatore di oggetti pratici ma non di consumo. Rappresenta, tuttora, un forte patrimonio di risorse che non possono esaurirsi e svanire nel giro di pochi anni.
Probabilmente è proprio per questo carattere, spontaneo e razionale insieme, che è sfuggita ad ogni stabile definizione ed appare inafferrabile od incomprensibile alla mentalità rigorosa e catalogante di oggi.
Può essere seguita più o meno attentamente ma non va mai completamente disattesa.”
Saluto Fiducioso…
ottimo!
Eh si, la catastrofe del senso. L’edificio che ne certifica l’inizio è senza dubbio le Centre Pompidou che proprio per questo suo primato conserva un’importanza storica : fine dell’architettura come era conosciuta, per entrare nel mondo del luna-Park.
Dopo poco si palesa al grande pubblico il casinò della finanza, creativa (?) e non, con i suoi prodotti-scommessa di una scommessa di una scommessa di una scommessa……con l’Archi-Urbanistica a sua immagine e somiglianza. Ogni tempo e ogni modo di produzione ha la sua città e la sua architettura : quella che si merita ! Più o meno come il clima e tutto il resto che segue, come a dire : quello che semini raccogli.
ottima riflessione Maurizio … che meriterebbe di concludersi con “meritiamo l’estinzione!”
Eh, caro FierMazzola, a me che non sono mai stato d’accordo col dominio e la visione del Capitale(ismo) e soprattutto non ne sono responsabile, nel pensiero e nelle azioni, pesa molto sentir parlare genericamente dell’Uomo responsabile del punto in cui siamo : oscene ipocrisie !! I responsabili hanno nomi e cognomi e anche quantità percentuali: l’1-2…6%. Quelli si, si dovrebbero ESTINGUERE, e prima accade e meglio è per tutti gli altri e forse anche per loro.
Saluti affettuosi.
Un profondissimo riflesso sull’ umanita, le sue divisioni sociali, le figure che hanno un senso di esistere e quelle che ne rappresentano sono il marcio assoluto. Opere plurimillenarie dal valore inestimabile, traccia indelebili di civilta uniche e di culture non replicabili nelle mani di avidi turgidi loschi individui attratti solo dal Dio denaro. Sono un peso inutile per la terra, l’acqua e l’aria. L’unico posto in cui stanno bene è in un buconero supermassivo al centro della via lattea. Non c’e suplizio, punizione, castigo sufficente per questi non esseri. I primo pensiero è vaporizzarli entro una esplosione nucleare in modo da cancellarne l’ esistenza. O questo paese si libera dalle catene o la nostra arte e cultura universale verranno cancellate dai nuovi barbari.
anatema assolutamente condivisibile!