Giorni fa, dopo aver riproposto il mio vecchio articolo sulle “Origini dell’Egemonia Modernista (di Regime)[1]”, nonostante la tesi sostenuta fosse supportata da un’ampia documentazione bibliografica e archivistica, qualcuno – ideologicamente di parte – ha sostenuto che fosse errato, da parte mia, affermare che il Fascismo avesse imposto l’uso dell’architettura razionalista perché, nella realtà, “l’unica architettura supportata e promossa dal partito sarebbe stata quella ‘classicista’, caratterizzata da inutili fronzoli decorativi e pomposi!”
Una posizione, questa, introdotta dopo la seconda guerra mondiale da parte di squallidi personaggi – passati alla storia come grandi critici, storici dell’architettura e docenti universitari – che mistificarono la realtà, arrivando perfino a cavalcare l’onda emotiva delle persecuzioni razziali, al fine di poter affermare la propria ideologia modernista e dimostrare l’equazione “architettura passatista = architettura fascista”.
Settant’anni e passa di lavaggio del cervello, nelle facoltà di architettura, nei libri e riviste, nelle conferenze e trasmissioni televisive, hanno finito per convincere la gente comune che, realmente, le cose stessero come questi squallidi manipolatori della realtà ci hanno raccontato!
A chi sosteneva che “gli aneddoti riportati fossero troppo pochi (nonostante le fonti citate) per sostenere la mia tesi”, ho dovuto ricordare che, chi scrive un articolo e non un libro, deve necessariamente operare una selezione delle informazioni, se non altro per evitare di annoiare il lettore “mordi e fuggi” … specie se l’articolo è indirizzato agli architetti i quali, nella migliore delle ipotesi, si limiteranno noiosamente a leggere i titoli e sfogliare le immagini, senza perder tempo ad approfondire! Molti dei rappresentanti di questa categoria, infatti – al pari dei guru delle sette religiose – sono convinti di poter derivare le proprie conoscenze da se stessi.
In certi casi, quindi, occorre anche capire quanto possa risultare difficile l’arte della sintesi, affinché il senso delle parole giunga a tutti!
Ebbene, a riprova di quanto sostenuto nel mio articolo, proprio in questi giorni – mentre per ragioni lavorative stavo svolgendo delle ricerche su di un edificio realizzato tra Piazza Cola di Rienzo e via Valadier – mi sono imbattuto nell’ennesima vicenda che dimostra come, a partire da un certo punto della nostra storia, sia stato deciso di imporre una “semplificazione” della composizione architettonica, al fine di produrre “un’architettura virile e dunque priva di ogni aggiunta decorativa, ergo “antitradizionale, espressione della Rivoluzione Fascista[2]”.
Diversamente infatti, prima di quella data di cui dirò presto, vigeva ancora un fortissimo interesse per il “rispetto del senso del decoro”, nonché del “bene comune” … cosa che portava i progettisti afflitti da mania di protagonismo a porre il proprio ego in secondo piano rispetto all’interesse comune, per il mantenimento del carattere dei luoghi. Così, se per esempio la Commissione Edilizia di Roma bocciava (nel 1929 e nel 1930) il progetto dell’ing. Giuseppe Cannovale per l’isolato tra Piazza Cola di Rienzo e via Valadier motivando: “si respinge consigliando un migliore studio dei prospetti”[3], la Società Generale Immobiliare, principale attrice dello sviluppo urbano in corso nell’area dell’ex Villa d’Heritz[4], al fine di valorizzare e tutelare la qualità del progetto d’insieme, negli atti per la promessa di vendita di alcuni appezzamenti di terreno edificabile, obbligava gli acquirenti ad ottenere «l’approvazione» della Società stessa «per il progetto esterno dell’edificio da costruire, a tutela dell’estetica e della euritmia dell’erigendo quartiere»[5].
Una pratica, quella del “rispetto per il senso comune del decoro”, che in quegli anni risultava estesa a tutto il territorio nazionale, se si pensa che a Venezia, come ricordava Antonio Salvadori, prima dell’avvento modernista la formula di approvazione dei progetti per le nuove costruzioni era: «[…] che el sia fato che el staga ben!»[6], ovvero «che sia costruito armonizzandosi nel contesto», mentre nella Relazione al Piano per Bari Vecchia di Concezio Petrucci e Gustavo Giovannoni si leggeva: «[…] Tra le attribuzioni del Comune e della commissione, dovrà essere quella che fa capo al Diritto Architettonico, in quanto l’opera esterna non tanto appartiene al proprietario quanto alla città[7]».
Tuttavia, questa attenzione al comune senso del decoro avrebbe avuto ancora vita brevissima!
Sulle riviste di settore (sponsorizzate dall’industria automobilistica ed edilizia), ormai da qualche anno, era partito un vero e proprio bombardamento mediatico atto a tagliare i ponti con la “scala umana” e interessato a soppiantare l’artigianato con l’industria.
Alla fine degli anni ’20 infatti, la stampa internazionale, faziosa e monista, ironizzava sui «tentativi di nobilitare le “case popolari” con strumenti eccessivi e ridondanti di decorazioni», definendo i “villini” realizzati dall’ICP di Roma alla Garbatella come “creature del ridicolo”. L’opinione diffusa era che «alcune case sembravano ministeri, mentre altre sembravano costruite da Borromini per un cardinale» … sicché, in occasione del concorso per la realizzazione delle “casette modello”, per il quale vennero invitati solo gli architetti che avevano sposato la linea “razionalista”, la stampa elogiò l’intervento, definendolo «bellissimo per il contrasto delle linee semplicissime in mezzo agli stupidi palazzetti neobarocchi».
Il punto di non ritorno, però, si ebbe dopo il 31 marzo 1931 quando, come ho accennato nell’articolo sulle “Origini dell’Egemonia Modernista (di Regime)”, venne organizzata la Mostra del MIAR tenutasi presso la “Galleria d’Arte di Roma” sita nel palazzo di Gino Coppedè di Via Veneto 7. Nel corso della mostra, l’organizzatore Pier Maria Bardi mostrò e spiegò al Duce la cosiddetta “Tavola degli Orrori”.
«Il 30 marzo 1931 è una grigia mattina di inizio primavera. Pier Maria Bardi, famoso giornalista ‘amico’ dei razionalisti nonché direttore della Galleria d’Arte di Roma, prende sottobraccio Benito Mussolini. All’ingresso della seconda esposizione universale del razionalismo italiano, ha affisso la cosiddetta “Tavola degli orrori”, un collage di esempi di architetture da lui considerate, appunto, “orrende”. Si assicura che il Duce la osservi bene, e poi gli consegna un plico, contenente il manifesto del razionalismo italiano: “Mussolini – gli dice con tono seducente – il fascismo è un qualcosa di rivoluzionario. E rivoluzionario deve essere anche nell’architettura”. Poi, la proposta: “Faccia del razionalismo un’arte di Stato, costruisca tutti gli edifici pubblici con questo stile. Non se ne pentirà”[8]».
Il leader del partito fascista, per la prima volta, veniva messo di fronte alla richiesta esplicita di dare il suo benestare alla creazione di una vera e propria ‘arte del Regime’!
Bardi ci era andato giù durissimo contro gli architetti che dispregiava, definendoli “culturalisti”, il suo delirante testo, esplicativo della “Tavola degli Orrori” spiegava infatti:
«Ad un certo momento del secolo scorso, quando dell’idea architettonica s’era ormai perduto persino l’odore, nacque l’architetto culturalista. Nacque forse nel botteghino d’un rivendugliolo di stampe antiche, da padre eclettico e da madre accomodatutto. Crebbe il piccino con il latte di cento balie, ed alla scuola con le lezioni di cento precettori: aveva il ragazzo da impluteare nella zucca un’enciclopedia di nozioni architettoniche, poiché l’angiolo aveva svelato ai genitori in sogno che il loro parto avrebbe avuto il ruolo, nel secolo, di architetto culturalista.
Conoscere: fu questo il motto che il giovinetto incise nel suo ex-libris. Comporre: fu questo l’impegno ch’egli si assunse di fronte al prossimo. Erigere delle case: fu questo l’incarico che l’attonita borghesia, fiduciosa di lui, affidò al nuovo leone. Giorni memorabili trascorse l’annunciatore in mezzo alle città, con la letizia dell’uffizio adempiuto con quella serietà di propositi che conduce alle soglie del paradiso. Ogni uomo ha nel capo il suo paradiso, composto delle sue preferenze ideali, dei suoi amori, delle sue sottili e godute conquiste morali. E l’architetto culturalista ebbe il suo paradiso: non se ne ebbe mai la chiave di quel limbo misterioso e pochi, pochissimi indagatori, riuscirono a penetrare in qualcuna delle camere d’aspetto del complicato labirinto.
La storia del gusto, per suo conto, indagò a più non posso per rivelare quel patetico mondo del tipo assunto ormai alle celebrità incontrovertibili: ma fu tempo perduto. Abbiamo, oggi, noi il privilegio di svelare quel segreto: è andata così: abbiamo ammazzato l’architetto culturalista, gli abbiamo aperto il cranio, ed abbiamo accuratamente ricavato tutto il suo paradiso. Lo abbiamo ricomposto minuziosamente e fotografato, per darne notizia accurata ai nostri lettori. Ecco, finalmente, di che si tratta[9]».
… Per la cronaca, Pier Maria Bardi, così ostile alla cultura dell’architetto “culturalista”, era un soggetto che, come in uso a quell’epoca, dopo aver ripetuto per tre volte la terza elementare, era stato costretto per legge ad abbandonare gli studi[10]!
Per quanto strano possa apparire, quella richiesta di Bardi e degli architetti “razionalisti” ebbe una grande influenza sulla mente del dittatore italiano e, conseguentemente, sulle scelte architettoniche italiane; basti pensare che, se nel 1929 Mussolini si era compiaciuto del fatto che Armando Brasini avrebbe realizzato l’edificio dell’INAIL di via IV Novembre, definendolo “l’unico architetto degno di poter mettere le mani sul centro di Roma”, dopo aver ascoltato le parole di Bardi ed aver visto le immagini di quel progetto sulla Tavola degli Orrori, nel discorso inaugurale (28 marzo 1932), mutò radicalmente la sua opinione: «l’edificio è un autentico infortunio capitato proprio alle Assicurazioni agli Infortuni!».
Non c’è quindi da meravigliarsi se – come ho scoperto casualmente nella ricerca sull’immobile di Piazza Cola di Rienzo – l’11 marzo 1933, il Governatore di Roma – dimentico del parere positivo di Vincenzo Fasolo e della Commissione Edilizia, che aveva approvato i prospetti, perché “migliorati” – così si esprimeva in occasione della seduta dell’11 marzo 1933: «il Governatore delibera che sia approvato il seguente progetto: Coop. Quadrata Domus – sanatoria per le varianti abusive introdotte nella costruzione di un fabbricato in Piazza Cola di Rienzo, a condizione che si semplifichi il prospetto togliendo i finali decorativi[11]».
Ecco spiegato come mai i prospetti attuali dell’edificio risultino mutili ed anonimi, rispetto al progetto originario: timpani, archetti, cornici e coronamenti vennero eliminati, in ossequio delle volontà del Governatore e di chi chiedeva “un’architettura virile e dunque priva di ogni aggiunta decorativa”, “antitradizionale”, espressione della Rivoluzione Fascista”.
Come per questo edificio, sono molti gli edifici romani, realizzati a cavallo del 1931, il cui apparato decorativo di progetto non è più stato realizzato. Per esempio, mi è capitato di ritrovare la stessa situazione per il complesso INA di viale Bruno Buozzi, progettato da Gino Cipriani, i cui prospetti sono stati tristemente privati delle decorazioni che avrebbero conferito una maggiore coerenza compositiva!
Se questa ulteriore “piccola vicenda” non è ritenuta sufficiente a comprendere come, ad un certo punto, sia stata imposta un’architettura “antitradizionale”, concludo rammentando ancora una volta ciò che accadde in quel di Como alla metà degli anni ’30 e, a seguire, ciò che il Governo Fascista decise per il resto d’Italia nel 1938.
Per essere più chiari occorre però fare un’ulteriore premessa.
Ai primi del Novecento il centro nevralgico dell’arte e della cultura mondiale si era da tempo spostato fuori dall’Italia sicché, in pieno periodo avanguardista, nel vano tentativo di riappropriarsi di quel ruolo guida, un gruppo di visionari italiani sviluppò l’idea, vincente, del Futurismo, il cui Manifesto dell’Architettura elaborato da Antonio Sant’Elia nel 1914, al Punto 8 dichiarava:
«Da un’Architettura così concepita non può nascere nessuna abitudine plastica e lineare, perché i caratteri fondamentali dell’Architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. “Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città” questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del “Futurismo”, che già si afferma con le “Parole in libertà”, il “Dinamismo plastico”, la “Musica senza quadratura” e l’”Arte dei rumori”, e pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista».
Le parole di Sant’Elia, giovanissimo ribelle all’epoca in cui l’Italia cercava il modo per riappropriarsi del ruolo di centro artistico e culturale del mondo, possono giustificarsi in quel contesto, ciò che non è giustificabile, è il fatto che quelle parole siano state intese come una “Bibbia” per tutta l’architettura che è venuta dopo.
Del resto, non c’è da meravigliarsi del successo che quel pensiero consumista possa aver riscosso presso gli architetti e i costruttori: gli interessi economici da esso innescati erano immensi[12].
Ciò che non ebbe modo di essere sviluppato da Sant’Elia, a causa della morte prematura, venne però portato avanti, fino all’esasperazione, dalle teorie di Le Corbusier a favore dell’industria automobilistica[13]. Quest’ultima, con il suo enorme potenziale economico in grado di manipolare l’opinione pubblica, supportata a sua volta dall’industria edilizia, che mirava solo ai profitti piuttosto che all’idea del bene e del bello comune, come si è detto, portò al bombardamento mediatico mirante a screditare l’architettura e l’urbanistica tradizionale, a favore di una Nuova Architettura, che fosse l’espressione del nuovo regime al potere in Italia.
All’estero, riviste come la tedesca “Moderne Bauformen”, la francese “L’Architecture d’Aujourd’hui”, la spagnola “AC – Documentos de Actividad Contemporánea, Publicación del G.A.T.E.P.A.C.”, opportunamente sponsorizzate dall’industria automobilistica ed edilizia, promuovevano la nuova architettura e, soprattutto, la nuova visione della città. In Italia, mentre nel 1931 chiudeva i battenti la splendida – ma scomoda – rivista “Architettura e Arti Decorative”, pubblicata nella Roma artigiana, nelle industriali Milano e Torino, i vari Giuseppe Pagano con “La Casa Bella”, Pier Maria Bardi e Massimo Bontempelli con “Quadrante”, Giò Ponti con “Domus“, Luigi Colombo Fillia con “La Nuova Architettura” iniziarono ad impartire i propri dogmi, pubblicando in modo monotematico ed enfatizzando la necessità di azzeramento della Storia, teorizzato da Gropius nel Bauhaus, nonché le ragioni di una “nuova Architettura, espressione della Rivoluzione Fascista”. Questi dogmi, sotto l’egida del Regime, avrebbero modificato drasticamente l’insegnamento dell’Architettura nel Bel Paese!
In questo clima si inserisce quindi la mostra del ’31 menzionata in precedenza … e in questo clima si inserisce anche la vicenda che, da Como, finì per dare il colpo di grazia all’architetto “culturalista” deriso da Bardi:
Nel decennio 1927 – ’36 un’altra battaglia tra “tradizionalisti” (Federico Frigerio) e “modernisti” (Terragni, Pagano, Cattaneo, ecc.) si era combattuta in quel di Como. La causa scatenante era stata l’edificazione del Novocumum da parte di Giuseppe Terragni, edificio inaccettabile per i comaschi dell’epoca.
L’edificio, commissionato nel ’27 da Ezio Paduzzi, amministratore delegato della Società immobiliare novocomum di Olgiate Comasco, fu costruito presentando alla Commissione Edilizia un progetto d’impronta classicista, sostituito in corso d’opera da un edificio rivoluzionario che ribaltava i canoni classici del palazzo d’abitazione.
La cosa fu denunciata dai lariani subito dopo la rimozione dei ponteggi, quando agli occhi dei cittadini si presentò un edificio totalmente dissimile da quello aspettato e che, ironicamente venne ribattezzato “il Transatlantico“.
In città scoppiò un vero e proprio scandalo, tanto che venne presto nominata una Commissione che doveva stabilire se demolire l’edificio!
La polemica fu immediatamente raccolta dalle più importanti riviste di architettura, Giuseppe Pagano su “La Casa Bella” e Giò Ponti su “Domus” difesero “l’innovativa architettura finalmente attenta ai principi razionali”. Era l’inizio, in Italia, di un dominio “culturale”, manovrato dalle riviste specializzate, che da quel tempo avrebbe visto progressivamente aumentare il suo potere, a discapito de senso del bene e del bello comune!
La storia, infatti, si ripeté con la “Casa del Fascio”, e questa volta la reazione dei comaschi fu eclatante: nel 1928, la Federazione Politica comasca, nonostante l’incidente del Novocomum, aveva affidato il progetto al Terragni che, come ci ricorda Alberto Artioli« seguì lo stesso metodo usato per il Novocomum dove, per accelerare i tempi burocratici e soprattutto mettere di fronte al fatto compiuto le autorità comunali, aveva “truccato” il progetto presentato ufficialmente[14] »; così, dal campo militare dove stava svolgendo il servizio di leva, scrisse al fratello Attilio dicendogli: «presenta un “progetto in stile”, poi quando tiriamo su i ponteggi facciamo quello che vogliamo!».
L’indignazione fu talmente forte che la popolazione si rifiutò di assistere all’inaugurazione dell’edificio, e si dovette ricorrere vigliaccamente ad una cerimonia di commemorazione dei caduti della Prima Guerra Mondiale per far confluire il popolo nel “piazzale” antistante la Casa.
Lo stesso Mussolini rimase profondamente turbato dall’edificio. Poi però, la furbizia lessicale di Terragni e Marinetti (il teorico del Futurismo), coniarono la giustificazione plausibile all’edificio: esso trasformava in architettura ciò che il Duce aveva detto, «il Fascismo è una casa di vetro dove tutti possono guardare!». fu così che il Duce fece sua l’idea dell’edificio, abbracciando quell’architettura come quella più giusta.
… Del resto Mussolini aveva ancora in mente le parole – e soprattutto la richiesta – di Bardi davanti alla Tavola degli Orrori del ‘31
Forte di questo successo politico Carlo Belli, sul numero 35 della rivista Quadrante del 1936, nel paragrafo intitolato “dopo la polemica” – per celebrare la vittoria del Modernismo conseguente la costruzione della Casa del Fascio di Como – diceva:
«Non so quanti, in Italia, potranno capire oggi la nostra gioia per il compimento della Casa del Fascio di Como. Quando, tra qualche anno, un’adesione universale conforterà quest’opera di Terragni, allora sì, molti si arrenderanno, per riconoscere onestamente che avevamo ragione. […] ma, ora, possiamo rispondere che vogliamo la Casa del Fascio di Como, intanto, come modello-base per tutti gli edifici d’Italia (compresi i ministeri). […] L’idea di un “Nuovo Vignola” dell’architettura italiana, idea ventilata in questi giorni, più che originale, assai più che brillante, è una proposta veramente saggia da attuarsi subito per l’onore e la salvezza del nostro prestigio in fatto di architettura. In questo manuale la Casa del fascio di Como sarà la tavola logaritmica delle costruzioni del genere, il vocabolario in cui sono espresse nella loro forma migliore, tutte le soluzioni più esatte dei più complicati problemi. Un prontuario di bellezza, un paradigma di saggezza: un’opera completa sotto tutti i punti di vista».
Fu così che nel 1938 – nell’interesse dei soli “palazzinari” – le richieste di Bardi e Belli vennero accolte e tramutate il legge: Infatti, affinché non si osasse mai più costruire in modo tradizionale, a cura del Ministero della Pubblica Istruzione Italiano, venivano promulgate le “Istruzioni per il restauro dei Monumenti” il cui punto 8 così recitava:
«Per ovvie ragioni di dignità storica e per la necessaria chiarezza della coscienza artistica attuale, è assolutamente proibita, anche in zone non aventi interesse monumentale o paesistico, la costruzione di edifici in “stili” antichi, rappresentando essi una doppia falsificazione, nei riguardi dell’antica e della recente storia dell’arte»[15].
La strenua resistenza dei membri della Associazione Artistica fra i Cultori dell’Architettura agli attacchi delle riviste monodirezionali, ormai non aveva più campo d’azione: gli architetti rispettosi dei contesti e della tradizione – ridicolizzati perché passatisti o culturalisti – erano ormai banditi per legge!
L’architettura era morta in nome del Modernismo di Stato … ma da noi c’è ancora chi preferisca far credere il contrario, bollando come fascista chi si interessi di architettura neo-tradizionale! … Le persone ideologicamente compromesse preferiscono infatti vivere nel mito della caverna di Platone ed accusare chi voglia rivelargli la realtà di essere in errore!
A questi “cavernicoli neoplatonici” che si definiscono “professori di storia dell’architettura” e che, per ragioni ideologiche, continuano a negare l’evidenza dei dati riportati, senza però confutarli con altrettante fonti dico quindi che, piuttosto che menare il can per l’aia facendo confusione tra l’architettura razionalista, quella “celebrativa” dell’EUR e l’architettura bandita nel ’38, essi farebbero bene a ricordarsi che la storia ufficiale – da sempre – è quella che, essendo scritta dai vincitori, tende ad infangare con menzogne di ogni tipo gli sconfitti.
Questa riflessione dovrebbe quindi aiutarli a rileggere, criticamente ed obiettivamente la Storia dell’Architettura del Novecento, sì da accorgersi di come i vincitori, sostenitori del modernismo, all’indomani del secondo conflitto mondiale, pensarono bene di rigirare la frittata, perfino usando l’argomento delle persecuzioni razziali, pur far trionfare il proprio pensiero “liberale” … sebbene molti di loro sapessero bene che, quella che stavano celebrando come “architettura liberale”, fosse esattamente la stessa edilizia che avevano fatto imporre dal governo fascista come Architettura di Stato!
Ne
consegue che una corretta conoscenza della Storia dell’Architettura Moderna non
possa apprendersi esclusivamente dai libri, prevalentemente faziosi, post bellici, ma dalla costante
ricerca, lettura e comprensione dei documenti ufficiali conservati negli
archivi – simili a quelli che ho brevemente riportato – che sono gli unici in
grado di mostrare, indipendentemente dal pensiero di ognuno di noi, come le
cose siano realmente andate e cosa possa e non ritenersi “fascista”.
[1] http://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2017/07/02/origini-dellegemonia-modernista-di-regime/
[2] Ettore Maria Mazzola – Contro Storia dell’Architettura Moderna: Roma 1900-1940 – A Counter History of Modern Architecture: Rome 1900-1940” Alinea Edizioni, Firenze, 2004
[3] Archivio Storico Capitolino – Verbale Commissione Edilizia Prot. 28540/1929
[4] L’area di Villa d’Heritz è localizzata nell’attuale quartiere Parioli presso Villa Grazioli, ed è delimitata dalle vie Lima, Bruxelles e Panama.
[5] Archivio Centrale dello Stato, Sogene, Documentazione provenienza proprietà e Atti diversi. Promessa di vendita della Società Generale Immobiliare agli ingegneri Riccardo Esdra e Renato Di Nola, 1° febbraio 1928, art. 5.
Vedi anche Ettore Maria Mazzola, “The Sustainable City is Possible – La Città Sostenibile è Possibile”, Gangemi Edizioni, Roma 2010.
[6] Cfr. Antonio Salvatori, Venezia – Guida ai Principali Edifici. Canal & Stamperia Editrice, Venezia, Castello 6117, 1995, pag. 18.
[7] Relazione al Piano di Bari Vecchia del 1930, ispirato da Gustavo Giovannoni e studiato da Concezio Petrucci.
[8] https://loremipsum.news/2019/03/20/fece-anche-cose-buone/
[9] Pier Maria Bardi, “La “Tavola degli orrori” alla Mostra d’Architettura Razionale” su “L’Ambrosiano” del 31 marzo 1931
[10] R. Mariani, Razionalismo e architettura moderna, Milano 1989
[11] Archivio IX Dipartimento di Roma – Verbale Deliberazioni del Governatore di Roma, Estratto 1742 dell11 marzo 1933, contenuto nel fascicolo relativo al Certificato di Agibilità/Abitabilità (Richiesta 23601/1932)
[12] http://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2017/08/07/sul-disastro-urbanistico-successivo-al-iv-ciam-del33-e-sulla-possibilita-di-far-rinascere-le-nostre-citta/?fbclid=IwAR1iCpYkdpdeKwQtZlgGjCai6UQzgE5Tpoie2S663L_wyP60KGvduawmKXw
[13] Prima il Plan Voisin (Voisin era un costruttore d’auto) e poi la Ville Radieusesecondo cui «le città saranno parte della campagna; io vivrò a 30 miglia dal mio ufficio, in una direzione, sotto alberi di pino; la mia segretaria vivrà anch’essa a 30 miglia dall’ufficio, ma in direzione opposta e sotto altri alberi di pino. Noi avremo la nostra automobile. Dobbiamo usarla fino a stancarla, consumando strada, superfici e ingranaggi, consumando olio e benzina. Tutto ciò che serve per una grande mole di lavoro … sufficiente per tutti.»
[14] Alberto Artioli, “La Casa del Fascio di Como”, BetaGamma Editrice, Roma 1990, pag. 20; confrontare anche Ada Francesca Marcianò, “Giuseppe Terragni. Opera completa 1925-1943”, Officina Edizioni, Roma 1987, pag. 306
[15] In materia di “Falso Storico” rimando al mio saggio “falso storico? … Tutto falso!” in Como, la Modernità della tradizione, di Samir Younés ed Ettore Maria Mazzola, Gangemi Edizioni, Roma 2003, pagg. 33 – 47
Caro Ettore,
meriteresti un’ovazione per aver detto chiaramente che la storia è cosa ben diversa dallo storicismo. Da storico, l’ho sempre pensato anche io.
Grazie per il tuo articolo dal quale ho appreso molte cose.
Chi parlava, anzi cianciava di “stupidi palazzetti neobarocchi” era stupido lui, e anche parecchio.
Credo che l’equivoco di fondo – non percepito – vertesse sul fatto che l’architettura del Novecento era ormai una architettura per una società di massa. E’ vero che applicare su scala di massa elementi stilistici di altre epoche fa un effetto un po’ bizzarro. Però era, se non altro, un modo di riscattare l’anonimato e la serialità dell’architettura di massa con qualcosa che derivava, appunto, da edifici di altre epoche che erano per pochi. Il bello in quanto tale non è in serie, direi che è un unicum che si impone a tutti, quindi costruendo edifici minori con elementi del bello almeno lo si evoca per tutti dato che è destinato a tutti. Invece costruire in serie scatoloni dicendo che ciò che importa è solo la funzione, è chiaramente una mutilazione del valore architettonico dell’edificio. Dire: “Costruivano con gli stili del passato perché non avevano uno stile moderno”, è una banalità, dato che anche costruire in serie scatoloni “funzionalisti” dimostra la mancanza di uno stile; peggio ancora se si costruisce così in contrapposizione al passato, quasi per fargli dispetto.
Queste sono alcune mie riflessioni da non addetto ai lavori ma da semplice uomo di cultura e cittadino.
grazie a te Luca per il tuo prezioso commento!
In tutto questo sinottico quanto condivisibile approccio storico critico sull’avvento e affermazione del razionalismo poi funzionalismo, non mi spiego, non me lo sono mai spiegato davvero, l’enigma Luigi Moretti, per il quale nutro, come sai carissimo Ettore, una sperticata e per certi versi inspiegabile ammirazione-adorazione. Misteri dell’Architettura. Per me si tratta di un genio assoluto in grado d’interpretare trascendendola ogni soluzione che l’architettura abbia abbracciato in un dato tempo. Dalla casa della scherma a…Decima…alle palazze romane.
Saluto umilmente.
Questo tuo articolo dovrebbe essere inserito in tutti i libri della storia dell’architettura – nel capitolo inerente il Razionalismo in Italia – utilizzati dalle scuole medie all’universita’. E dico TUTTI e senza eccezione.
Una sola domanda: se esiste ancora una legge che proibisce la “falsificazione” storica nelle nuove architetture, come sono riusciti a ricostruire il bellissimo Palazzo Merulana tre o quattro anni fa, nel suo stile originale?
Ti ringrazio per il tuo commento.
Quanto alla norma, sebbene tutt’oggi esistente, in realtà è affidata anche alla sensibilità di chi vigila e, ogni tanto, i miracoli si compiono.
Un caro saluto
Ettore