Il caso dell’ex sede dell’ENEL di Barletta – un pericoloso precedente per tutto il territorio nazionale generato da “norme e “semplificazioni” e scorciatoie a beneficio della speculazione
Nelle ultime settimane a Barletta si è consumato l’ennesimo atto di mala-urbanistica, avente come oggetto la demolizione dell’ex edificio ENEL in viale Marconi, ovvero la demolizione di un abominio edilizio degli anni ’80 che qualcuno continua erroneamente a definire “palazzo”, tipologia ben più nobile di quell’orrenda scatola di cemento rasa al suolo.
Qualcuno potrebbe obiettare: perché lamentarsi di questa perdita?
Personalmente, sebbene per ragioni estetiche e ambientali possa essere felicissimo di questa demolizione, nella realtà sono esterrefatto dal modo in cui si sia arrivati alla stessa.
Non stiamo infatti parlando di un intervento di “rigenerazione urbana”, che tanto bene farebbe in quella squallida parte di città posta a ridosso della ex Distilleria e del centro cittadino, perché l’oggetto della discussione riguarda una becera operazione finanziaria, messa in atto con il beneplacito della precedente gestione commissariale del Comune prima, e dell’attuale amministrazione versione Ponzio Pilato poi.
Non annoierò nessuno ricostruendo le fasi salienti di questo percorso “senza ostacoli” che ha portato alla demolizione e che tutti i barlettani conoscono, grazie ai tanti articoli pubblicati da Rino Daloiso sulle pagine della Gazzetta del Mezzogiorno[1], perché preferisco fare alcune riflessioni sull’argomento e dare dei suggerimenti atti a cambiare il modo di procedere, che riguarda il capoluogo della BAT, ma anche l’intero territorio nazionale.
È del 22 settembre 2020 il primo articolo nel quale si dava notizia della proposta di Luca Lacerenza (PD), per la “riqualificazione” dell’orrendo edificio abbandonato: «Sarebbe bello immaginare un possibile intervento di recupero dell’immobile, che sia anche una ricucitura del tessuto urbano fortemente lacerato in quella parte di città dove l’abitato, oltre la ferrovia e verso la periferia, si dirada lasciando posto a strutture non residenziali abbandonate. (…) Credo che insieme, come cittadini, possiamo immaginare un futuro diverso per quell’immobile e più in generale per quella parte di città, che da troppo tempo aspetta una maggiore e migliore attenzione delle istituzioni e dei privati».
Una proposta invero sacrosanta, specie laddove si parli della necessaria “ricucitura del tessuto urbano” … purtroppo però, non tutte le ciambelle riescono col buco!
Da quella data ad oggi, la GdM ha pubblicato almeno altri 15 articoli sull’argomento, con una intensificazione doverosa in concomitanza dell’inizio dell’opera demolitoria, iniziata in sordina il 30 maggio 2022 con delle opere di “interramento cavi” a seguito di una CILA e proseguita poi, con una SCIA, fino all’abbattimento dell’edificio, a metà gennaio 2023.
Fin qui uno potrebbe dire, tutto è bene ciò che finisce bene, se non fosse che, in realtà, questa operazione rappresenti uno degli atti più arroganti eseguiti in danno alla comunità di Barletta, sotto l’egida di una giunta che, come Ponzio Pilato – senza rammentare le proprie funzioni, né valutare l’eventuale illegittimità delle autorizzazioni – ha preferito limitarsi a chiamare in causa l’Avvocatura Comunale la quale, fraintendendone il senso, ha ritenuto corretta la Delibera Commissariale del 14 gennaio 2022 che ha consentito il cambio di destinazione urbanistica di un lotto e financo la possibilità di monetizzazione degli standard urbanistici.
Un precedente pericoloso, che segna un salto di qualità nel modus operandi di chi gestisce l’edilizia a Barletta: un tempo si demolivano gli edifici privati e si sostituivano con altri edifici privati più grandi – e più brutti – mentre oggi si sdoganano gli edifici con funzione pubblica e addirittura le dotazioni minime di standard urbanistici, per realizzare 80 appartamenti privati.
Ancora più grave è che quelle dotazioni minime vengano rimpiazzate da una monetizzazione del loro valore, che non solo non consentirà di rimpiazzare quello standard in prossimità del luogo individuato da PRG, ma che mai risulterà sufficiente a farlo altrove.
Come è possibile modificare la destinazione urbanistica di una parte di città in assenza di un nuovo Piano Regolatore Generale che, per l’appunto, affronta l’intero territorio comunale al fine di renderlo completo di tutte quelle funzioni atte a ritenere un insediamento urbano completo e autosufficiente?
Lo scorso 19 dicembre l’ing. Francesco Carpagnano, sempre sulla GdM, aveva chiaramente spiegato: «Nessuno deve mai dimenticare che tutti gli atti e le decisioni di una Pubblica Amministrazione si ripercuotono sempre a favore o in danno dell’intera comunità amministrata, che è l’unica a subirne gli effetti ed a pagarne le conseguenze, in caso di scelte inefficaci. (…) La questione – secondo la legge urbanistica – non può essere ridotta alla semplice monetizzazione degli standard urbanistici, come si sta dicendo. Il fatto è molto più impattante. Qui si tratta di una variante sostanziale al Piano Regolatore vigente che non segue l’iter procedurale prescritto per legge. (…) il Piano Regolatore (come tutti i piani urbanistici generali o di dettaglio) è stato dimensionato, rispettando precise proporzioni fra la parte edificabile e quella da destinare a standard urbanistici, come previsto dal Decreto Ministeriale 1444 del 1968 che ancora oggi è vigente e deve essere sistematicamente rispettato per tutte le iniziative pubbliche o private di programmazione e sviluppo del territorio. (…) Gli “standard urbanistici” sono costituiti da tutte quelle aree, strutture e infrastrutture che servono a garantire al cittadino la vivibilità e la sostenibilità ambientale del territorio in cui vive.(…) Un quartiere o una zona della città, priva o menomata di tali infrastrutture, costituisce un danno ambientale e sociale per tutti i cittadini, a fronte di lauti guadagni da parte di qualcuno. (…) Quindi, per legge, non si può demolire quel fabbricato che insiste in area per urbanizzazioni secondarie (essendo esso stesso un’attrezzatura riveniente da standard urbanistici) e realizzare, sic et simpliciter, alloggi di edilizia residenziale privata “monetizzando” gli standard.
Per la regolarità degli atti, il Comune deve operare una Variante Sostanziale al Piano Regolatore che trasformi quell’area da “urbanizzazioni secondarie” ad “area per le residenze”, riconteggiando gli standard urbanistici e verificandone la congruità con le prescrizioni del Decreto Ministeriale 1444/68. (…)».
Quanto all’errata interpretazione della Delibera della gestione commissariale, sulla GdM del 7 gennaio 2023, Antonio Divincenzo (PD) aveva ben detto: «Gli inquilini di Palazzo di Città si rimettono ai pareri dell’avvocatura e dell’ufficio tecnico, esautorandosi del potere/dovere politico della scelta.(…) La verità è che la politica dei pavidi ha scelto di nascondersi volutamente per favorire le aspettative di pochi a danno della collettività.
(…) La politica urbanistica della città, allontana l’approvazione del Piano Urbanistico Generale ed esclude la politica da ogni forma di controllo rispetto alle iniziative private che sottraggono standard alla città in cambio di mera monetizzazione degli spazi. (…) la Delibera del commissario con i poteri del consiglio del 14 gennaio 2022 non ha abolito il limite dei 200 metri quadrati al di sopra del quale non è consentita la monetizzazione. (…)
Nella stessa delibera, il commissario ha determinato un aumento del 30% degli importi stabiliti dallo stesso con la delibera di giunta del 24 novembre 2021, dimostrando di voler aumentare i costi della monetizzazione degli interventi previsti dalla legge regionale. (…) Le due delibere del commissario devono essere lette in una prosecuzione logica(…) e non in contraddizione, come ha fatto invece l’Avvocatura Comunale.
(…) La legge regionale prevede la monetizzazione degli standard sui volumi aggiuntivi non sui volumi esistenti. Pertanto: con quale potere il dirigente ha deciso di privare la città anche dello standard esistente?»
A questo punto andrebbe fatta una riflessione circa ciò che definiamo “standard minimi”, poiché essi stessi, spesso, non risultano minimamente sufficienti a soddisfare le esigenze di una comunità. I moderni PRG, basati sui dettami della Carta di Atene[2] e sulla “zonizzazione” infatti, hanno portato a concepire città disumane, dove la vita non è di casa. Città caratterizzate da periferie ipertrofiche dove non si incontra una piazza, un giardino o un parco degno di esser definito tale.
Eliminare quindi anche quella dotazione minima, peraltro con la scorciatoia di una monetizzazione, è un qualcosa da considerarsi ai confini della realtà … confini che, evidentemente, coincidono con il territorio comunale della Repubblica di Bananas che conosciamo sotto il nome di Barletta.
Barletta, continuerò a ripeterlo all’infinito, necessita di un nuovo PUG che, però, piuttosto che mettere al centro gli interessi degli immobiliaristi e dei proprietari terrieri – male comune a tutto il territorio nazionale – metta al centro della progettazione “il disegno della città”, facendo in modo che centro e periferia non abbiano distinzioni in termini di presenza e vivibilità degli spazi pubblici, ricordando che l’urbanistica – come rammentò Fernand Léger ai convenuti del IV CIAM del ’33 – è sociale, perché l’urbanistica deve mirare a creare il senso di appartenenza ai luoghi in cui si vive, piuttosto che dividere e spersonalizzare la gente.
Nel lontano 2004, all’epoca della giunta Salerno, con i nostri studenti della University of Notre Dame, sviluppammo dei progetti per Barletta[3], frutto dell’analisi sul campo e delle discussioni avute con gli ex assessori Crescente, Pantheon e Doronzo e alcuni cittadini, relativamente a ciò che sarebbe stato utile per migliorare la situazione generale della città.
A quell’epoca emerse subito la grave cesura esistente tra la città al di qua e al di là dalla ferrovia, nonché l’impellente necessità di salvare le splendide strutture dell’ex Distilleria. Tra le varie proposte, manco a dirlo, si pensò a come collegare viale Marconi al resto della città – passando attraverso l’area della Distilleria – creando una piazza in pendenza (utilizzabile per spettacoli estivi all’aperto) atta a sottopassare, attraverso una galleria commerciale, la ferrovia, per giungere in Piazza Conteduca e da lì, attraverso viale Giannone e via Baccarini, attraversare Piazza Moro e via Consalvo da Cordova e convergere nell’area di Piazza Plebiscito da dove, attraverso via dei Teatini e via Santo Stefano, scendere al mare oppure continuare a passeggiare lungo via Cialdini e il centro storico, per raggiungere la Cattedrale, il Castello e/o il Porto … un asse pedonale e semi-pedonale in grado di ricucire la città e ridurre drasticamente il traffico, oltre che rendere sicura, anche nelle ore notturne, una parte di città che sembra essere terra di nessuno.
19 anni fa, ovviamente, non si poteva sperare nella sparizione dell’orripilante edificio dell’ENEL, sicché ci si limitò ad immaginare, davanti alla chiesa dei Cappuccini, una nuova piazzetta dalla quale far partire una sorta di “cardo”, quale anima della “futura Barletta a dimensione pedonale”.
Oggi invece, con la scomparsa dell’edificio ENEL, si aprono nuovi orizzonti al nuovo assetto cittadino, che consentirebbero la realizzazione di uno spazio pubblico ancora più significativo della piazzetta proposta per la chiesa dei Cappuccini, che potrebbe venire a configurarsi come una “cerniera” di collegamento per via Enrico Fermi e l’intero quartiere Borgovilla-Patalini.
Vale a dire una città dove la dotazione degli “standard” non si limiterebbe ai minimi sindacali imposti dai Decreti 1404 e 1444 del 1968, né mai proporrebbe una loro eliminazione e monetizzazione, semmai si tratterebbe di una città nella quale lo spazio pubblico la farebbe da padrone e dove, grazie ad una nuova visione dell’urbanistica, potrebbe esserci molto più da raccogliere, da parte di tutti, costruttori in primis.
COP 26 e COP 27 infatti, impongono la necessità di azzeramento del consumo di suolo e, soprattutto, la necessità di intervenire drasticamente sull’edificato con l’obiettivo di azzerare le emissioni nocive per il pianeta causate dall’edilizia esistente … un qualcosa che non riguarda l’edificato storico, ma tutto quello realizzato a partire dagli anni immediatamente successivi il dopoguerra.
Considerata quindi l’opportunità del PNRR[4] e considerando l’esistenza di modelli virtuosi di “sostituzione edilizia” di quartieri degradati in giro per il mondo, uno tra tutti l’esempio di Le Plessis-Robinson a Parigi[5], i costruttori potrebbero garantirsi un futuro non solo per loro, ma per le generazioni a venire.
Chi, come me, combatte il modo in cui si operi a livello edilizio in Italia, non lo fa guardando ai costruttori come a dei nemici, ma lo fa guardando a loro come a semplici operatori che si muovono all’interno di un sistema caratterizzato dall’ideologia “funzionalista-consumista”, che ha portato a concepire teorie e leggi fuorvianti le quali, come conseguenza, hanno portato alla creazione città invivibili e case inospitali.
I costruttori vanno considerati come operatori destinatari di opportuni indirizzi, al fine di operare interventi corretti, perché gli aspetti estetici e funzionali non hanno alcun valore, in quanto troppo spesso l’unico fattore che interessa loro è quello economico.
Finché gli indirizzi da parte di chi fa teoria continueranno ad essere errati, finché tra i costruttori e politici si continuerà, furbescamente, a cercare scorciatoie atte a evitare gli ostacoli dati dalle norme esistenti, non potrà esserci alcun cambiamento in positivo, semmai si continuerà a dar seguito a interventi arroganti che non faranno altro che aumentare la diffidenza dei cittadini verso la classe politica a servizio degli speculatori.
Assodato quindi che le attuali norme – in quanto concepite in periodi storici caratterizzati da una ideologia fuorviante – debbano essere modificate, assodato altresì che le città necessitino di una revisione, che non può continuare a basarsi sulla reinvenzione della ruota – come vorrebbero i supporters dello zeitgeist – occorre mettere mano ai PUG, riportando l’uomo e le sue esigenze vitali al centro della progettazione.
Continuare, come si fa a Barletta, a procedere per varianti puntiformi al piano e, peggio ancora, ridurre i già risicati standard urbanistici, significa finire di distruggere una città già gravemente sfregiata da chi, finora, abbia avuto a cuore solo l’interesse privato.
[1] GDM 22/09/2020; GDM 01/06/2022; GDM 02/06/2022; GDM 17/12/2022; GDM 19/12/2022; GDM 23/12/2022; GDM 24/12/2022; GDM 27/12/2022; GDM 03/01/2023; GDM 07/01/2023; GDM 09/01/2023; GDM 17/01/2023; GDM 21/01/2023; GDM 26/01/2023;
[2] https://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2017/08/07/sul-disastro-urbanistico-successivo-al-iv-ciam-del33-e-sulla-possibilita-di-far-rinascere-le-nostre-citta/
[3] “Barletta, la Disfida Urbana, Mare Centro e Periferia – Sea, Centre and Periphery” A cura di Ettore Maria Mazzola e Samir Younés, Prefazione di Francesco Salerno. Editrice GANGEMI, Roma, 2005 – ISBN13: 9788849207088 – ISBN10: 8849207085
[4] https://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2022/04/29/pnrr-si-grazie-ma-che-lo-si-faccia-sulla-falsariga-del-piano-di-rivitalizzazione-del-centro-storico-di-bologna-del-1969/
[5] https://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2018/01/23/le-plessis-robinson-quando-la-rigenerazione-urbana-quella-vera-paga-il-driehaus-prize-2018-a-marc-e-nada-breitman/ https://www.facebook.com/media/set/?set=a.10219879081782921&type=3
Ben definita come “urbanistica dell’arroganza” anche se a questo punto il termine “urbanistica” sembra già temerario per un “progressivo processo speculativo” a danno del bene e dell’interesse pubblico ! Le città in generale e Roma in specie, sono afflitte dall’agorafobia altrimenti conosciuta come fobia del vuoto o dello spazio vuoto, esattamente ciò di cui, al contrario, hanno più bisogno. Vuoto organizzato, attrezzato, dedicato al verde, alle attività sportive, ricreative, contemplative, alla, questa di, rigenerazione del suolo, dell’aria, della mente, coll’imprescindibile ausilio della essenze arboree e di altri viventi al seguito. De-densificare la città significa smetterla di costruire edifici, cioè spazi pieni, riducendoli al non più del 20% delle aree disponibili. Questo significa riconvertire i termini di investimento d’impresa nell’ambito urbano ma soprattutto significa la riconquista della pianificazione e programmazione da parte dell’EntePubblico.
Splendido commento Maurizio, ottime riflessioni
Grazie Ettore, di offrire sempre argomenti con uno spessore tale da sostenere riflessioni profonde, proprio come un’architrave, elemento strutturale al quale ti assimilo sempre più.
Abbiamo un Vitruvio per l’architettura e l’ingegneria ma non lo abbiamo per l’urbanistica e certo nel mondo antico forse non poteva neanche esserci, fatto salvo alcuni sovrani e imperatori come Ottaviano Cesare Augusto, Adriano o altre importanti figure che però erano più strateghi militari e politici lungimiranti che altro.
Mi scuso per la digressione.