Il progetto dei graduate students della University of Notre Dame per l’ex Villaggio Olimpico
Premessa
Purtroppo, a causa della incapacità di rimettere in discussione l’onestà intellettuale degli insegnamenti ricevuti, molti architetti continuano a difendere strenuamente una serie di progetti urbanistici sviluppati – nel momento più buio dell’ideologia applicata all’urbanistica e all’architettura in Italia – da alcuni professionisti, ritenuti degli “intoccabili” dal mondo accademico.
Questo è il caso, per esempio, dell’ex Villaggio Olimpico di Roma[1]. Il progetto, sviluppato tra il 1957 e il 1960 da Vittorio Cafiero, Adalberto Libera, Amedeo Luccichenti, Vincenzo Monaco e Luigi Moretti, che oggi si presenta come una sorta di piccoli “Corviale”, sparsi alla rinfusa su dei “prati” posti al di sotto della collina di Villa Glori, in prossimità del corso del Tevere … a ben vedere, infatti, si tratta di una serie stecche suburbane di edifici su pilotis, tipiche della follia architettonica proposta/imposta da Le Corbusier, che ben poco hanno a che fare con l’idea di città ma che, ancora negli anni ’80 quando studiavo a Valle Giulia, ci venivano suggerite come soluzioni belle, economiche e funzionali.
Questo quartiere, agli occhi di chi non risulti motivato da convinzioni ideologiche – o di chi non voglia apparire “ignorante” perché diverge dal pensiero estetico indicato dagli addetti ai lavori – si presenta come una realtà metafisica, dove la vita non sembra di casa. Una realtà spersonalizzante, dove gli edifici – sebbene al progetto vi abbiano lavorato ben cinque “grandi maestri” del Novecento – risultano tutti tristemente identici tra loro, benché assemblati in maniera differente … La vista dall’alto del complesso si presenta come la schermata di un videogioco degli “Space Invaders”
Perfino i nostri studenti, prevalentemente provenienti dagli USA, ergo abituati a situazioni suburbane, hanno rilevato la triste situazione urbanistica che, più che invitare a vivere il quartiere, sembra voler dissuadere la gente dall’idea di vivere lo spazio pubblico.
A parte alcune situazioni sporadiche come quella di “Piazza” Grecia, dove il piano pilotis presenta alcune attività, l’intero quartiere non prevede alcuna presenza commerciale e/o artigianale al piano terra, né gli spazi come “piazza” Grecia – il virgolettato è necessario – risultano appartenenti ad un sistema interconnesso di piazze (sequenza urbana), che inviti le persone a passeggiare in tutta sicurezza …
La folle visione ”funzionalista” – che faremmo meglio a definire “automobilecentrica” – promossa da Le Corbusier e dai suoi seguaci infatti, visione alla quale il Villaggio Olimpico appartiene, è quella che ha portato le città a piombare in una realtà di degrado e pericolo della quale non se ne sentiva affatto il bisogno!
Sebbene infatti questo nuovo modello di città zonizzata fosse stato definito come “funzionale”, con l’avvento dello “zoning” – ergo con l’abbandono della visione multifunzionale degli organismi urbani in luogo della necessaria mobilità atta a sostenere la produzione automobilistica – le nostre città sono andate via via morendo[2].
In questi anni stiamo assistendo alla desertificazione dei centri urbani, generata dal proliferare di centri commerciali, lontani dai centri abitati. Queste ipertrofiche strutture, infatti, con le loro politiche di mercato, sbaragliano ogni possibile concorrenza, portando gradualmente alla morte dei “negozietti dietro l’angolo” … ma queste assurde politiche urbane non si limitano a danneggiare i poveri commercianti, ma tutti noi, perché vengono a privare le nostre strade della loro naturale vita e sicurezza!
Infatti, già nel 1961[3], in Vita e morte delle grandi città Americane[4] Jane Jacobs, nel capitolo “Le funzioni dei marciapiedi”, articolato in “la sicurezza” e “i contatti umani”, diceva:
«Le funzioni di autogoverno delle strade sono tutte modeste, ma indispensabili. Nonostante molti tentativi, pianificati o no, non s’è ancora trovato nulla che possa sostituire una strada vivace e animata […] La prima cosa da capire è che l’ordine pubblico nelle strade e sui marciapiedi della città non è mantenuto principalmente dalla polizia, per quanto questa possa essere necessaria: esso è mantenuto da una complessa e quasi inconscia rete di controlli spontanei e di norme accettate e fatte osservare dagli abitanti stessi. In certe zone urbane, come ad esempio in molti vecchi complessi di case popolari e in molte strade con rapido cambio di popolazione, il mantenimento della legge e dell’ordine sui marciapiedi è affidato quasi interamente alla polizia e a guardie speciali: ebbene queste zone sono vere giungle, perché non c’è polizia che basti a garantire la civile convivenza una volta che siano venuti meno i fattori che la garantiscono in modo normale e spontaneo. Il secondo punto da tener presente è che il problema della sicurezza non si risolve accentuando la dispersione degli abitanti, sostituendo cioè al carattere urbano quello tipico del suburbio. Se così fosse Los Angeles dovrebbe essere una città sicura».
Ed ecco il punto:
«Tutti sanno che una strada urbana frequentata è probabilmente anche una strada sicura, a differenza di una strada urbana deserta. Ma come vanno effettivamente le cose, e che cosa fa sì che una strada urbana sia frequentata oppure evitata? Perché viene evitato il marciapiede di Washington Houses, che dovrebbe costituire un’attrazione, e non i marciapiedi della città vecchia immediatamente adiacente? Che cosa avviene nelle strade che sono animate in certe ore ma ad un certo punto si spopolano improvvisamente?
Per essere in grado di accogliere gli estranei e di approfittarne per accrescere la propria sicurezza, come sempre accade nei quartieri più vitali, una strada urbana deve […] essere sorvegliata dagli occhi di coloro che potremmo chiamare i suoi naturali proprietari. In una strada attrezzata per accogliere gli estranei e per garantire lo loro sicurezza e quella dei residenti, gli edifici devono essere rivolti verso la strada; non è ammissibile che gli edifici lascino la strada priva di affacci, volgendo verso di essa la facciata posteriore o i lati ciechi. […] I marciapiedi devono essere frequentati con sufficiente continuità sia per accrescere il numero delle persone che sorvegliano la strada, sia per indurre un congruo numero di residenti a tenere d’occhio i marciapiedi dagli edifici contigui. A nessuno piace starsene seduto sul terrazzino d’ingresso o affacciato alla finestra a guardare una strada deserta (e infatti quasi nessuno lo fa), mentre c’è molta gente che si diverte a dare di tanto in tanto un’occhiata a ciò che avviene in una strada animata.
[…] Condizione essenziale per attuare tale sorveglianza è che lungo i marciapiedi del quartiere sia disseminato un congruo numero di negozi e di altri luoghi pubblici, e in particolare di esercizi e luoghi pubblici frequentati nelle ore serali e notturne. Così soprattutto i negozi, i bar e i ristoranti possono favorire in modi diversi e complessi la sicurezza dei marciapiedi».
È incredibile quanto matura e attuale fosse questa lettura critica della città funzionalista, già agli albori della scriteriata urbanistica “moderna”! … Ma non è incredibile il fatto che a scriverlo non sia stato un architetto, bensì una giornalista illuminata. L’attualità di queste parole dovrebbe essere un monito per chi continui a pianificare la città in zone monofunzionali dove la vita non è di casa.
Ovviamente quanto espresso dalla Jacobs risulta perfettamente riscontrabile nella pessima concezione urbanistica dell’attuale Villaggio Olimpico. Non è un caso se l’assoluta assenza di vita del quartiere consenta al racket della prostituzione di utilizzare, da decenni, le sue strade per il proprio, ignobile mercato[5] di donne e, come venivano definiti negli anni ’80 i trans, “viados”.
A peggiorare la situazione del quartiere, il passaggio in quota del viadotto di Corso Francia – perfettamente rientrante nell’ideologia urbanistica “automobilecentrica” dell’epoca – crea una cesura ancora più violenta e desolante.
Il quartiere ospita alcune strutture straordinarie come il Palazzetto dello Sport di Pierluigi Nervi, straordinaria struttura (all’interno) che è stata abbandonata al degrado per anni e che, finalmente, in questi giorni sta tornando a vivere[6] e lo Stadio Flaminio, sempre di Pierluigi Nervi, tristemente abbandonato al degrado di ogni genere … anche a causa della miopia di chi vieti di modificarlo per adeguarlo al suo riutilizzo da parte di una delle due squadre della città[7].
Né la realizzazione dell’Auditorium Parco della Musica di Renzo Piano ha portato vita al quartiere … non già per le sue cancellate e passaggi a livello, che lo rendono uno spazio privato più che pubblico, né tantomeno per il suo, discutibile, aspetto esteriore, che da subito lo ha fatto ribattezzare dai romani “i tre scarafaggi”, ma a causa della sua totale mancanza di connessione al resto della città. L’Auditorium, infatti, non è un luogo cui recarsi passeggiando … nemmeno per chi viva ai Parioli o al Flaminio, perché lo spazio intorno è terra di nessuno, dove nessuno avrebbe piacere a passeggiare, specie all’imbrunire.
E allora cosa fare? … E cosa salvare?
Il progetto per il Villaggio Olimpico degli studenti del Graduate Program della University of Notre Dame School of Architecture
Nel corso del Fall Semester 2021, per il mio corso di Progettazione Urbanistica e Architettonica del Master in Urban and Architectural Design della University of Notre Dame School of Architecture ho assegnato, come tema progettuale, la “Rigenerazione Urbana” dell’ex Villaggio Olimpico ad un gruppo di 8 studenti, Jonathan Buehler, Anthony Ferraro, Daniel Glasgow, Carey Groninger, Jones, Margaret, William Marsh, Juan Nino, Luci Serra.
Il corso, come di consueto, è stato strutturato in tre fasi: analisi urbana, progettazione urbana, progettazione architettonica. La fase analitica ha riguardato in primis l’analisi della città storica, poi quella dei quartieri a ridosso dell’area di intervento e, infine l’analisi dell’area di intervento.
L’obiettivo prefissato era quello di individuare il carattere della città e del quartiere, individuare le preesistenze meritorie di un restauro e riuso e, soprattutto, di comprendere le problematiche sociali, ambientali, funzionali e urbanistiche dell’area e, dialogando anche con alcuni residenti e professionisti gravitanti nell’area che sono riuscito ad invitare a prendere parte ad un minimo tentativo di “progettazione partecipata”, trovare le soluzioni migliori per riqualificare il quartiere e collegarlo al resto della città.
Inutile dire che questi ragazzi – liberi da preconcetti in quanto provenienti dall’altro lato del pianeta – non conoscendo il valore attribuito a determinati edifici da parte dell’establishment accademico romano, hanno da subito ritenuto senza alcun valore urbanistico-architettonico gli edifici dell’ex Villaggio Olimpico, considerandoli come un sinistro complesso popolare da cui girare al largo … e grande stupore ha suscitato il sapere che il complesso risultasse annoverato nelle guide dell’Architettura Moderna di Roma e che qualcuno lo ritenesse degno di essere considerato un monumento.
Il gruppo si è mostrato anche molto critico con l’Auditorium, sia a livello urbanistico che architettonico, sicché è stato necessario far comprendere loro l’importanza attribuita al suo autore, nonché la mancanza di fattibilità di una proposta che ne prevedesse la sostituzione, mentre sarebbe risultato più corretto ipotizzarne una migliore integrazione all’interno del contesto nel quale sorge … cosa che, alla fine, è infatti stato proposto.
L’analisi del sito ha portato anche a riscoprire la bellezza di quello che, un tempo, erano stati lo Stadio Nazionale prima e lo Stadio Nazionale Fascista poi, prima che venisse realizzato l’attuale Stadio Flaminio.
In particolare questa ricerca ha condotto gli studenti a proporre una soluzione per l’ingresso allo Stadio Flaminio, interamente immerso in un parco, ispirata all’ingresso monumentale dello Stadio Nazionale, eliminato in occasione della trasformazione dello stesso operata nel 1927.
L’assenza di un disegno urbano ha da subito portato i progettisti a considerare la necessità di individuare quelli che potessero risultare i luoghi più consoni ad ospitare una serie di piazze e piazzette, interconnesse tra loro, atte a creare una rete di spazi pubblici in grado di vitalizzare il quartiere e, al contempo, connetterlo ai principali punti di interesse circostanti.
Ovviamente nel progetto si è dovuto tenere in considerazione il passaggio in quota del Viadotto di Corso Francia, nonché la necessità di rispondere alla normativa in materia di distanze di rispetto dai principali assi di scorrimento veloce … un problema che, lo vedremo, si è rivelato invece uno dei punti più interessanti della proposta.
Il fatto che si dovesse lasciare un’area libera tra il viadotto e l’edificato ha infatti consentito di pensare alla realizzazione di un parco lineare di circa 200 metri di larghezza, attraversato in quota dal viadotto, per il quale è stata ipotizzata una trasformazione a mercato e luoghi di ristoro della parte inferiore, lasciando una serie di attraversamenti atti a ricucire, in sicurezza, le due porzioni del quartiere oggi apparentemente disgiunte.
Il suggerimento è venuto guardando ad una serie di precedenti, esistenti negli USA, che mostrano come una strada in quota possa ospitare, al livello inferiore, una funzione come questa.
Il Mercato al di sotto del Queensboro Bridge di New York, con le splendide volte di Guastavino, così come il Mercato di Charleston hanno infatti offerto una interessantissima alternativa alla squallida e sinistra condizione di abbandono attuale.
L’idea di trasformare il viadotto in un mercato longitudinale – attraversato da ben 6 percorsi, uno dei quali anche veicolare – ha consentito anche di pensare ad una trasformazione della parte superiore dove, anche per abbattere ulteriormente il rumore del traffico, si è pensato di installare una copertura a sezione semi-ellittica – che rimanda alla Basilica Palladiana di Vicenza – rivestita con pannelli fotovoltaici in grado di produrre energia pulita.
Infatti, considerando che l’estensione del Viadotto di Corso Francia nel tratto del Villaggio Olimpico è di 663 x 35 metri, la sua copertura svilupperebbe una superficie pari a 23.205 mq di pannelli fotovoltaici. Ebbene, considerato che un impianto fotovoltaico di 1000 mq produce in media 150.000 kWh all’anno di energia elettrica[8], la copertura del viadotto, oltre a fungere da barriera acustica potrebbe produrre 3.480.750 kWh all’anno … una bella alternativa alla sparizione di campi coltivati in campagna, sempre più incentivata[9].
Ovviamente, pensando a come realizzare questo massiccio intervento di trasformazione senza stravolgere l’esistenza degli attuali residenti, si è ipotizzato di procedere per fasi, operando sui vuoti esistenti, in modo da poter avere dei nuovi edifici, posti a poca distanza da quelli esistenti, dove far trasferire gli abitanti degli edifici da demolire.
Ovviamente la progettazione ha privilegiato l’idea del mix funzionale e mix sociale, in modo che il nuovo edificato possa risultare un vero e proprio quartiere dotato di tutte le funzioni e gli spazi vitali, atti a renderlo autosufficiente e piacevole d’essere vissuto.
Lo sviluppo delle città storiche, come infatti aveva già chiaramente spiegato Gustavo Giovannoni ai primi del Novecento[10], è sempre proceduto per duplicazione e moltiplicazione di agglomerati autonomi e autosufficienti, questi agglomerati, in media, presentano un diametro tra gli 800 e i 1000 metri … ovvero quella distanza massima pari a 10 minuti a piedi, tanto in voga oggi tra i rappresentanti del New Urbanism e i loro emulatori.
Diversamente dal modo di concepire le città moderne zonizzate, quelle città prevedevano una commistione di funzioni e una equa distribuzione di edifici pubblici all’interno dell’ambiente edificato e, conseguentemente, una serie di piazze e piazzette interconnesse tra loro, disposte lungo le principali strade cittadine … che comunemente definiamo “sequenze urbane principali”[11].
In virtù di questo principio – fondamentale per il “disegno della città” – i progettisti hanno strutturato il loro Master Plan in modo che il nuovo edificato andasse a collegarsi con gli assi dell’edificato circostante e valorizzasse le emergenze architettoniche prossime all’area. Ne è scaturito un sistema di sequenze urbane (lineari e anulare) interconnesse tra loro, lungo le quali si incontrano ben 13, tra piazze e piazzette e un grande parco di quartiere … un sistema che, sostanzialmente, riporta l’area ad una dimensione pedonale, sebbene accessibile al traffico veicolare.
Nella progettazione dell’edificato, molto ha giovato lo studio degli splendidi caseggiati dell’ICP Flaminio II caratterizzati da cortili a giardino interni, progettati nel 1925-27 da G. Wittinch, A. Limongelli e M. De Renzi, così come lo studio del Complesso della Cooperativa di Dipendenti Postelegrafonici (oggi denominata Villa Riccio) – progettato nel 1919 da E. Negri – costituito da una serie di semplici e bei villini immersi nel verde.
Per la progettazione architettonica infatti, i progettisti hanno ritenuto di doversi riallacciare al carattere architettonico dei circostanti quartieri Flaminio e Parioli, proponendo una serie di edifici a corte, i cui giardini interni potrebbero ospitare aree di gioco per i bambini e spazi per il tempo libero degli anziani; inoltre, alle pendici della collinetta di Villa Glori, di fronte all’Auditorium Parco della Musica, hanno proposto un grande lotto con villini immersi nel verde – ispirati al Complesso della Cooperativa di Dipendenti Postelegrafonici – che consentirebbe una sorta di graduale sfumatura dell’edificato verso l’ambiente naturale del parco di Villa Glori.
Il progetto, come si è detto, non si è limitato al disegno urbano e architettonico, ma ha affrontato gli aspetti sociali, economici e ambientali, necessari a valutarne la reale sostenibilità. Sono stati considerati per esempio i dati relativi al numero di abitanti esistenti (dati del 2019) per poter definire quanti dovessero essere gli appartamenti e uffici da rimpiazzare “a costo zero”, ergo quelle unità edilizie che non avrebbero portato ad alcun ritorno economico.
Analogamente a quanto accadeva ai primi del Novecento a Roma, nonché a quanto accade oggi in realtà estere (Brandevoort in Olanda[12], Le Plessis-Robinson in Francia[13], Cayalà in Guatemala[14], ecc.), volendo generare una realtà urbana votata all’integrazione, ergo senza distinzioni di classi sociali, è stato ipotizzato che il 30% degli alloggi dovranno risultare di edilizia sociale; questo accorgimento, oltre a risultare positivo in termini sociali, risulta anche utile all’azzeramento dei costi pubblici dell’edilizia popolare, in quanto il costo viene assorbito – e superato – dai proventi della vendita degli altri alloggi, uffici e attività commerciali del quartiere … come la grande lezione dell’ICP del primo Novecento sta a dimostrare[15].
Come si è già avuto modo di spiegare, è stata altresì valutata la possibilità di coprire il Viadotto di Corso Francia con un impianto fotovoltaico che, oltre a fungere da barriera acustica, potrebbe produrre 3.480.750 kWh all’anno … una cosa che potrebbe risultare ancora maggiore utilizzando parte delle coperture piane non visibili degli edifici progettati.
Tenendo in considerazione tutti questi parametri e procedendo ad una valutazione dei costi di demolizione, nuova costruzione, realizzazione del parco, trasformazione del viadotto, è stato valutato un investimento di circa € 1,154 mld.
Per quanto riguarda il ritorno economico sono invece stati presi in considerazione i costi aggiornati del borsino immobiliare per la zona in oggetto, che hanno portato ad un ritorno pari a € 2,600 mld, ovvero ad un guadagno finale pari a € 1,446 mld, cui si sommerebbero annualmente poco più di € 9 mln prodotti dagli affitti dei 2,147 alloggi in affitto a prezzo calmierato … cifre non indifferenti, possibili da investire in altre operazioni simili, necessarie alla rigenerazione urbana, realmente sostenibile, di tutte le periferie romane … forse questo potrebbe essere il modo più valido per investire i fondi del PNRR che rischiano di essere sperperati per le solite cattedrali nel deserto affidate a delle archistar autoreferenziali.
Non sono stati considerati invece i costi per il restauro e riuso del Palazzetto dello Sport e dello Stadio Flaminio che, comunque, possono essere coperti dai proventi sopraindicati, cosa che dimostra, se ancora fosse necessario, la validità di un’operazione del genere
Le immagini che seguono riguardano alcuni dei disegni, di studio e finali, elaborati individualmente da alcuni dei partecipanti al programma.
[1] https://archidiap.com/opera/villaggio-olimpico/
[2] https://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2017/08/07/sul-disastro-urbanistico-successivo-al-iv-ciam-del33-e-sulla-possibilita-di-far-rinascere-le-nostre-citta/
[3] https://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2020/01/23/vita-e-morte-della-citta/
[4] Tradotto e pubblicato in Italia nel 1969 a cura di Einaudi.
[5] https://roma.repubblica.it/cronaca/2018/02/23/news/villaggio_olimpico_sporcizia_e_prostituzione_sul_podio_solo_degrado-189542712/
[6] https://www.ilpost.it/2023/01/07/impianti-sportivi-roma-problema/
[7] https://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2019/06/02/ce-qualcuno-davvero-interessato-a-salvare-lo-stadio-flaminio/
[8] https://www.coenergia.com/progetti/revamping-con-sungrow-impianto-su-tetto-1000mq
[9] https://acncontract-landinpage-terreni.it/?gclid=CjwKCAiAioifBhAXEiwApzCztpEgXTbv5O72s1r5vWX5-cOXJJWQkOB4aCiUNBRfnhu4WWyie5Gj_hoCkLQQAvD_BwE
[10] Ettore Maria Mazzola – “Contro Storia Dell’Architettura Moderna: Il Caso di Roma 1900-1940 – A Counter History of Modern Architecture: Rome 1900-1940”, Editrice ALINEA, Florence 2004.
[11] Ettore Maria Mazzola – “Leggere la città attuale per disegnare quella futura – sequenze urbane di Roma” https://www.academia.edu/33123650/Leggere_la_citt%C3%A0_attuale_per_disegnare_quella_futura_sequenze_urbane_di_Roma
[12] https://www.simmetria.org/images/stories/pdf/rivista_18_2013_a5.pdf
[13] https://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2018/01/23/le-plessis-robinson-quando-la-rigenerazione-urbana-quella-vera-paga-il-driehaus-prize-2018-a-marc-e-nada-breitman/
[14] https://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2021/10/27/costruire-il-bello-e-stimolare-il-senso-di-appartenenza-e-possibile/
[15] https://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2017/08/01/il-quartiere-testaccio-di-roma-e-la-politica-dellicp-agli-albori-della-sua-esistenza-un-importante-precedente-da-cui-imparare/
Non sono un architetto perciò non so valutare la validità del progetto, posso solo dire che gli edifici su pilotis mi hanno sempre provocato inquietudine oltre che un senso di straniamento. Per me, nato e vissuto al centro di Roma, dove un tempo le botteghe artigiane, i negozi, i cinema, la sale da biliardo, teatri, musei, osterie caratterizzavano i piano terra dei palazzi, la vita ferveva nalle piazzette dei rioni e la sera la gente tirava fuori le sedie per fare quattro chiacchiere con i vicini, quei casermoni privi di uno spazio comune all’interno e invivibili su strada apparivano brutti e alienanti, oltretutto non mi pareva possbile che non vi fossero ville e giardini come quelli della Mole Adriana, del Pincio, del Gianicolo e di villa Borghese, dove si poteva passeggiare e giocare. Buona fortuna.
Grazie per la sua testimonianza che, ancora una volta, dimostra che i “non architetti” hanno tanto da insegnare agli architetti, troppo spesso arroganti e presuntuosi. Del resto i vari Brunelleschi, Michelangelo, Palladio, Borromini, Bernini ecc., e più recentemente i vari Brasini e Sabbatini, pur non avendo studiato architettura, hanno prodotto meraviglie perché erano ancora legati all’idea di scala umana e rispetto delle esigenze umane e dei luoghi in cui intervenivano
Baciamo le mani a vossia, mi prenderò altro tempo per rileggere e osservare testo e elaborati, che trovo già convincenti, ma ora mi sovviene alla mente un brano letto anni fa, non ricordo adesso con precisione ma credo fosse citato sull’ultimo libro di Walter Tocci, in cui si portava a esempio della “civiltà “ dell’automobile alcune città di fondazione degli anni ‘30 del ‘900 nel midwest americano, prive di marciapiedi, in quanto inutili per una città pensata per residenti tutti auto muniti. Alcune, leggevo, sono ancora in parte così visibili.
Vado a cercare. A presto.
Ciao Maurizio,
ben tornato, se trovi quel testo mandami il titolo
Ciao
Caro Ettore, complimenti ai tuoi studenti e a te che li hai magistralmente seguiti. Purtroppo chi mai riuscirà a cambiare il trend italiano, e che quindi a considerare progetti di qualità come quello da te presentato?
caro Alberto,
grazie per le tue parole …. occorre combattere questa pacifica battaglia culturale nella speranza che, prima o poi, si vincerà la guerra