Questo progetto intende mostrare un esempio pratico pianificato per sostituire il più simbolico edificio / quartiere modernista di Roma - il complesso di alloggi popolari di Corviale - un “gratta-terra” lungo 1 km, dove circa 6500 abitanti vivono, o meglio "sopravvivono", in attesa di migliori condizioni di vita.
La proposta è una dimostrazione di come si possa sostituire questo “gratta-terra” con un nuovo borgo tradizionale a misura d'uomo, senza la necessità di spostamenti traumatici per i residenti: il progetto mostra infatti come migliorare la vita nel quartiere e rilanciare economia locale, come preservare e migliorare sia il paesaggio e che l'ambiente e, ultimo ma non meno importante, come creare un grande e inaspettato business per l'amministrazione locale piuttosto che il solito sperpero di denaro pubblico!
Affrontare questo progetto significa innanzitutto porsi delle domande cui dare delle risposte inequivocabili:
Come è possibile demolire un edificio al cui interno vivono migliaia di anime, evitando il loro trasferimento coatto come all’epoca degli sventramenti mussoliniani?
Come procedere per fasi affinché si possa avere la disponibilità di nuovi alloggi, adiacenti l’attuale complesso, dove far spostare senza traumi i residenti?
Come rispondere alla necessità del cosiddetto “premio di cubatura” per incentivare l’interesse degli investitori che possano contribuire a realizzare l’intervento?
Cosa, se è possibile, salvare almeno delle infrastrutture preesistenti?
Che tipo di impianto urbano si addice a siffatto luogo?
Come favorire l’integrazione dei residenti, finora marginalizzati per volere dei progettisti e dei politici conniventi?
Quale tipo di architettura può risultare la più adatta ad un intervento che riguarda l’edilizia economica e popolare di Roma?
Quali spazi disegnare per i bambini e gli anziani che devono vivere la maggior parte della giornata all’interno dell’insediamento?
Quali sono le attività indispensabili per poter considerare Corviale un “quartiere” autosufficiente?
Come strutturare la viabilità per rispondere alla esigenza dei pedoni, e non solo delle automobili?
Come concepire il verde di quartiere affinché sembri davvero tale, piuttosto che limitarsi alla piantumazione di alberi lungo le strade?
Sono davvero gli standard urbanistici l’unico metro di giudizio dello spazio che progettiamo? Oppure occorre riferirsi ad argomenti quali l’articolazione dello spazio edificato lungo delle “sequenze urbane di piazze e piazzette”, la ricerca del senso di “contenimento dello spazio”, l’uso di una “scala umana”, la “commistione di funzioni”, la “co-presenza di individui appartenenti a classi sociali diversificate”, l’uso di un “linguaggio architettonico autoctono in grado di stimolare il senso di appartenenza”, la riscoperta del “genius loci”, l’impiego di materiali durevoli che impediscano la costante spesa per la manutenzione degli edifici di pubblica proprietà?
Infine, una delle domande cui più difficile è dare una risposta è la seguente: è possibile generare ricchezza per la comunità locale?
Paradossalmente, la risposta a quest’ultima domanda è affermativa!
La città del XX secolo, con il suo sperpero di territorio generato dalla realizzazione di grandi tracciati stradali e aree di parcheggio spesso sovradimensionati, nonché dalla necessità di mantenere delle “distanze di rispetto" tra gli edifici, ci ha lasciato una grande quantità di terreni di proprietà demaniale!
Questa situazione fa sì che, se Comuni, Province, Regioni e Stato si facessero soggetti attivi all’interno di un processo di "re-urbanizzazione" e "ri-generazione" delle nostre città, potremmo tornare ad avere uno Stato che dà il buon esempio nel modo di costruire e, soprattutto, risultando in competizione con gli investitori privati, potrebbe tornare a svolgere il ruolo di freno alla speculazione come accadeva prima delle scriteriate leggi del 1925-26!
Non è un caso se nel 1907, a seguito del tracollo finanziario del Comune di Roma, Giovanni Giolitti ebbe a dire: «Se in principio, nel 1870, vi fosse stata un’Amministrazione comunale che, intuendo l’avvenire di Roma, avesse acquistato le aree fino a 5 o 6 km intorno alla città, ed avesse compilato un piano di ingrandimento, studiato con concetti molto elevati, oltre ad avere creato una città con linee molto più grandiose, avrebbe anche fatto un’eccellente speculazione».1 Oggi quelle aree richieste da Giolitti sono sotto gli occhi di tutti, ma la città continua a immaginare urbanizzazioni nell’agro romano, specie per quanto riguarda l’edilizia popolare e il cosiddetto “Housing Sociale” … la ragione è ovviamente dovuta al costo dei suoli in zone centrali e semicentrali. Se però si rivedessero le sezioni stradali e tutti quei “vuoti urbani” che risultano di proprietà pubblica, allora le cose potrebbero cambiare drasticamente, e quella città disumana che abbiamo ereditato potrebbe trasformarsi in una enorme risorsa per tutti noi!
Si noti che, per mettere un freno alla speculazione sulle aree edificabili che impediva la costruzione di case popolari a costi ragionevoli, già nel 1907, con l’avvento della prima giunta comunale liberal-popolare guidata da Ernesto Nathan,2 si decise di costituire un ampio demanio municipale, con funzione di calmiere del mercato fondiario e di potenziamento dell’edilizia pubblica sovvenzionata, dotando l’ICP di adeguati strumenti finanziari.3 Nello stesso periodo, un’indicazione simile veniva proposta durante il Congresso Internazionale per l’Edilizia Pubblica tenutosi a Londra nel 1909: «[…] essendo il mercato delle aree il motivo principale della crisi delle città, occorre acquistare il maggior numero possibile delle stesse da parte di enti pubblici al fine di destinarle ad uso collettivo».
Detto ciò non abbiamo che da dover imparare dalla nostra storia recente, senza dover andare a scavare nel passato remoto, né tantomeno procedere secondo la prassi modernista della sperimentazione non testata, facendo ogni giorno tabula rasa e ricominciando da zero.
Corviale quindi, e l’immenso terreno incolto al suo intorno – spesso utilizzato come discarica abusiva per vecchi elettrodomestici e materassi – potrebbero trasformarsi nel primo progetto di rigenerazione delle periferie italiane, e la cosa non è mai stata più fattibile di oggi, che l’Istituto per le Case Popolari è venuto a trasformarsi in Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale (ATER) e, in quanto tale, potrebbe tornare a svolgere quel ruolo svolto fino agli anni ’20 del secolo scorso, quando non si limitava a gestire il patrimonio edilizio, ma lo costruiva per sé e per conto terzi.
Questo consentirebbe di procedere in proprio, come per esempio all’epoca di Testaccio e Garbatella, coordinando il lavoro di cooperative di artigiani locali e piccole imprese, quindi generando migliaia di posti di lavoro. La cosa è più che fattibile se per esempio facciamo riferimento al processo di “frammentazione” dell’edificato da realizzare in un unico isolato, detta suddivisione dei lotti all’interno dell’isolato – già utilizzata negli esempi menzionati – consentirebbe di procedere da direzioni opposte con imprese e maestranze differenti, il che si tradurrebbe in più posti di lavoro e tempi di costruzione più brevi, ma anche in sana competizione tra le figure coinvolte nel processo costruttivo. Se a questo unissimo la possibilità di accedere a fondi comunitari per la riformazione dell’artigianato edilizio, potremmo ottenere un’ulteriore riduzione dei costi; se poi aggiungessimo che, se costruissimo in tecnica tradizionale, oltre ad ottenere edifici con un miglior comportamento termo-igrometrico, otterremmo una vasta manodopera specializzata in competizione con se stessa, ci renderemmo conto che potremmo indirettamente ridurre i costi di restauro del patrimonio storico che ci consente di vivere grazie al turismo.
Un ulteriore criterio per ridurre – se non addirittura eliminare del tutto – i costi di costruzione dell’edilizia popolare, ci viene da un altro criterio adottato in passato per migliorare le condizioni sociali dei residenti, ovvero dal divieto di costruire quartieri, e/o edifici, caratterizzati da un'unica tipologia di residenti: mirare all’integrazione delle classi più disagiate significa non ghettizzarle, ritagliare all’interno degli edifici appartamenti da dare in affitto popolare, o a “riscatto”, o da vendere, significa dare la possibilità all’Ente di rientrare immediatamente nei costi, se poi si aggiunge la possibilità di vendere negozi ed uffici, che peraltro portano vita e sicurezza nel quartiere, allora l’operazione diventa molto interessante, ed in grado di surclassare qualsiasi idea di “grandi opere” che i vari governi che si sono succeduti in questo Paese abbia portato avanti!
Si noti che il problema della casa a Roma non è solo un problema ristretto alla classe operaia. Si finge infatti di promuovere le famiglie, ma non ci si accorge quanto possa essere difficile per dei giovani mettere su famiglia. Esistono dei problemi enormi dovuti al precariato ed all’impossibilità di poter pagare un affitto ragionevole, men che mai di comprare casa e fare dei figli. Ma la storia ci viene ancora una volta in aiuto ricordandoci che 100 anni fa ci si rese conto che il problema delle case non era solo un qualcosa ristretto alla classe operaia e agli immigrati, bensì riguardava soprattutto il vastissimo numero di impiegati dello Stato che, a causa del costo degli affitti, stentavano ad andare avanti. A tal proposito fu detto: «a Roma risolvendo il problema degli alloggi degli impiegati si risolve il problema degli alloggi dell’intera cittadinanza».4 Questa frase, all’indomani della Grande Guerra, divenne lo slogan della pubblicistica romana circa la crisi edilizia. Perché allora non provare a recuperare tutte le norme che furono emanate a quell’epoca per dare un tetto ai romani, peraltro costruendo meravigliosi esempi che oggi vengono equiparati al centro storico?
Il modello da costruire non può essere ovviamente quello della cosiddetta “Città Giardino” secondo la concezione anglosassone. Questo era ben chiaro dall’inizio del XX secolo, quando sempre Pirani ebbe a sottolineare: «l’esperimento fatto in Roma nella costruzione di casette isolate, è più che sufficiente a stabilire che quelle non riescono a buon mercato e non possono quindi considerarsi come vere case popolari. Riteniamo peraltro che, ammesso il principio di fabbricare case a più piani, non si debba necessariamente far delle caserme o degli alveari, ma si possa invece, alternando i diversi corpi di fabbrica in diverse altezze, adottando avancorpi e rientranze, ottenere oltre che un movimento di linee che giova all’estetica, anche un gioco d’aria e di luce sulle aree interne destinate a cortili, sufficiente a diminuire se non ad eliminare, l’impressione della caserma o dell’alveare umano ... i nostri cortili non sono aree chiuse tra i corpi di fabbrica su cui prospettano i soli locali di servizio, ma sono come una continuazione delle pubbliche strade: danno accesso a tutte le scale che disimpegnano i diversi appartamenti e contengono piccoli edifici speciali adibiti ai servizi comuni (asilo, bagni, ecc.)». Ed allora il giusto modello, dato che i costi di costruzione, le condizioni socio-sanitarie e la piacevolezza degli spazi nel tempo lo hanno dimostrato, può essere quello della “casa a corte”, ove inserire veri e propri giardini e campi di gioco in grado di accogliere i bimbi e gli anziani. Il pensiero va automaticamente al lotto n°8 costruito da Plinio Marconi alla Garbatella; oppure al complesso costruito da Camillo Palmerini a Piazza Tuscolo, oppure ancora agli edifici costruiti da Pirani a Piazza Mazzini e via Tagliamento oppure a quelli di Sabbatini a Piazzale degli Eroi o viale dei Quattro Venti, o, infine a quelli di Wittinch, Limongelli e De Renzi al Flaminio.
Ecco quindi che le idee per il nuovo sviluppo di Corviale sono state messe sul tavolo e possono svilupparsi in un progetto che sia la logica continuazione di un processo costruttivo dell’edilizia popolare, sviluppato a Roma con grande successo, e troppo frettolosamente abbandonato a causa dell’illusione di una modernità travisata.
Il progetto per il nuovo Borgo Corviale, che ha dunque previsto la possibilità di recuperare tutte le infrastrutture preesistenti (fognature, acquedotto, linee del gas, linee elettriche, ecc.), si articola lungo il crinale della collina che termina a sud sulla Portuense. Nell’impianto urbano è dunque stato mantenuto il tracciato delle strade preesistenti, completandolo sul versante Ovest e parzialmente a Sud. L’idea è stata quella di pensare ad una viabilità che consentisse l’accesso veicolare a tutti gli edifici, ma che al contempo pensasse in primo luogo alla pedonalità del sito e definisse in maniera chiara i confini dell’edificato. Lungo la spina centrale si è pensato di ritmare il passeggio inserendo 5 piazze, o piazzette, e pensando alla presenza di portici che consentano l’inserimento di una serie di attività commerciali. Questa scelta potrebbe essere la giusta alternativa agli obsoleti (all’estero) e dannosissimi centri commerciali realizzati in luoghi lontani da tutto e da tutti. Gli stessi soggetti interessati alla realizzazione dei centri commerciali in attesa di concessioni nel Comune di Roma, potrebbero essere re-indirizzati verso questi spazi interni all’edificato, garantendo la piacevolezza del passeggio e, soprattutto, la sicurezza dell’abitato vissuto 24 ore su 24!
Ovviamente è stata pensata una equa distribuzione dei parcheggi, pubblici e privati, in modo da non disturbare il passeggio. Lungo i margini dell’edificato sono stati pensati dei parcheggi a raso, al di sotto di molti edifici e piazze si è pensato ad inserire dei parcheggi pubblici e/o privati, ipotizzando anche l’uso di sistemi di parcamento meccanizzato che tra l’altro, a parità di numero di autovetture, non richiedono grandi superfici, operando in profondità.
Per garantire l’autonomia del borgo si è pensato di inserire anche delle attività indispensabili per la vita di ogni giorno dei residenti. Un ufficio postale, una chiesa, una delegazione municipale, delle scuole che coprono le fasce d’età dalla materna alla superiore. In particolare si è pensato ad una tipologia edilizia scolastica che consideri spazi verdi da dedicare allo sport e che, al termine delle ore di lezione, possano utilizzarsi come centri sportivi in grado di attrarre i giovani del quartiere e mantenere vita intorno agli edifici che, diversamente, risulterebbero isolati al termine delle lezioni; è stato pensato di trovare una nuova collocazione per la biblioteca/centro culturale, estremamente importante per le attività culturali della zona, ed è stato anche inserito un cinema-teatro. L’intero spazio edificato verrebbe contenuto da un grande parco verde.
La tipologia edilizia residenziale è quella della casa a corte, tipica dei quartieri ICP del primo Novecento. In particolare, le corti saranno circondate da diverse tipologie di alloggi, modulate secondo le più diverse esigenze dei residenti, dalla casa a schiera a quella in linea, al palazzetto, alla palazzina. All’interno di ogni corte è stato inserito un giardino attrezzato per gli anziani ed un campo di gioco per i bambini del quartiere. Le corti sono collegate tra loro al fine di creare un’alternativa pedonale, corte per corte, per i residenti.
Gli edifici non eccederanno mai i 18 metri di altezza, articolando i volumi il più possibile secondo le indicazioni date dal Pirani al fine di evitare l’effetto “casermone”.
Il taglio degli appartamenti andrà dai 50 mq ai 140, in modo da essere modulati per tutte le esigenze abitative (single, coppie senza figli, famiglie numerose, famiglie di anziani, famiglie interessate ad avere un giardino e non, ecc.) e per poter garantire sia degli appartamenti destinati all’alloggio popolare che altri destinati all’affitto a riscatto e/o alla vendita.
In aggiunta a tutto questo, il progetto così concepito, consente la restituzione all'agricoltura di una superficie superiore ai 10 ettari, sebbene la superficie residenziale e il numero dei residenti venga ad aumentare. Si stima infatti una popolazione insediabile di 8530 unità a fronte degli attuali 6500 residenti.
Dalla vendita dei nuovi alloggi non necessari come “popolari”, degli edifici speciali, dei locali per le attività commerciali e/o artigianali, sarebbe subito possibile recuperare i costi di demolizione e costruzione; inoltre, stando alla promessa dell’ATER di vendere a “prezzo stracciato” il resto degli alloggi agli attuali inquilini, sarebbe possibile incamerare ulteriore denaro!
Ebbene, l’analisi costi/benefici che è stata sviluppata con il progetto dimostra che, considerando i costi attuali di demolizione e costruzione di un’edilizia di qualità superiore nell’area di Roma, pur applicando per gli alloggi eccedenti dei prezzi di vendita inferiori a quelli indicati dal Borsino Immobiliare e un prezzo irrisorio per quelli “promessi” ai residenti dall’ATER, sarebbe possibile realizzare un’operazione urbanistica economica e sociale senza precedenti (negli ultimi 90 anni) che consentirebbe allo Stato-proprietario-imprenditore di chiudere il bilancio con un positivo pari a € 518.500.000,00!
Questo denaro pubblico potrebbe essere reinvestito in operazioni simili in tutto il territorio nazionale e tutto questo non potrebbe che confermare la fattibilità degli obiettivi di partenza.
1 Per l’edilizia della capitale, Camera dei deputati, tornata 16 giugno 1907, Discorsi, vol. III, p. 969. <
2 Ernesto Nathan fu il primo Sindaco liberale eletto dal blocco popolare, governò dal novembre del 1907 al dicembre del 1913. <
3 Il 50% dell’imposta di fabbricazione andava a finanziare l’ICP. <
4 Maggiorino Ferraris, Il Rincaro delle pigioni e le case per gl’impiegati in Roma, Nuova Antologia, Roma 1908, pag. 18. <